MARK BILLINGHAM
SEGNI DI SANGUE
(The Burning Girl, 2004)
Per Hillary Hale
«E ora so come si sentì Giovanna d'Arco,
ora so come si sentì Giovanna d'Arco,
mentre le fiamme le salivano fino al naso romano,
e il suo walkman cominciava a sciogliersi...»
Bigmouth Strikes Again, The Smiths
PROLOGO
QUASI IL CINQUANTA PER CENTO DELLE NUOVE ATTIVITÀ FALLISCE ENTRO I PRIMI TRE ANNI!
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Febbraio
IL PREZZO DI ESSERE UMANI
Quando Carol Chamberlain ricevette la prima chiamata, stava dormendo. Lo squillo del telefono la strappò al rumore e all'odore del sogno. L'immagine confusa di una ragazza che correva, con i colori che le danzavano sulla schiena, esplodendo e avvolgendole il collo come sciarpe rosse e oro.
Comunque, che le avesse sognate o immaginate, iniziò a rivedere quelle immagini appena mise giù il telefono. Seduta sul bordo del letto, scossa dai brividi. Jack si era appena voltato nel sonno, senza svegliarsi.
Carol vide ogni cosa.
I colori erano così vividi, il rumore così chiaro... Proprio come quella mattina di venti anni prima. Ne era certa. Lei non c'era in quel momento, non aveva visto il fatto con i propri occhi, ma aveva parlato con tutti i testimoni oculari. E si era convinta che quando rivedeva, o meglio immaginava, la scena nella sua mente, la stesse vedendo proprio come era accaduta...
Il rumore dei piedi dell'uomo sull'erba, mentre saliva lungo il pendio, e il suono della melodia che cantava a bocca chiusa, furono sommersi dal chiasso proveniente dal campo da gioco. Qualche strillo acuto si sollevava al di sopra di un'onda bassa e continua di chiacchiere e pettegolezzi, che rotolava lungo il campo e giù dalla collina, fino alla strada.
L'uomo ascoltò, avvicinandosi, senza però riuscire a sentire nulla di definito. Quasi certamente parlavano di musica e di ragazzi. Chi era "in" e chi era "out". C'era anche un altro rumore: quello di una falciatrice dall'altra parte della scuola, dove era al lavoro una squadra di giardinieri in tuta verde. Anche lui indossava una tuta verde come le loro. Gli mancava solo lo stemma del municipio.
Mani in tasca, berretto calato sulla fronte, percorse il perimetro del campo da gioco, dove si trovava la ragazza con un gruppo di amiche. Alcune di loro avevano la schiena appoggiata alla recinzione metallica. Erano tranquille, rilassate.
L'uomo tirò fuori di tasca un paio di cesoie e si chinò, vicinissimo alle ragazze dall'altra parte del recinto. Con una mano cominciò a tagliare alcune erbacce intorno a un palo di cemento. Con l'altra prese la tanica di liquido infiammabile.
La cosa che lo preoccupava di più era l'odore. Si era assicurato che la tanica fosse piena fino all'orlo, e non si udì neppure un sibilo, o un gorgoglio, mentre versava il liquido attraverso un buco nella rete. Lo preoccupava soltanto la possibilità che mentre la sostanza inzuppava la gonna, l'odore insospettisse la ragazza o una delle sue amiche.
Ma quando posò la tanica mezza vuota nell'erba e mise la mano in tasca per prendere l'accendino, le ragazze non si erano ancora accorte di nulla. Erano troppo occupate a chiacchierare. Con sua sorpresa, la gonna bruciò lentamente per almeno quindici secondi, prima che si levasse la vampata. E non fu la ragazza a gridare per prima, ma una delle sue amiche...
Jessica prestava poca attenzione al racconto di Ali sull'ultima festa a cui era stata, o alle chiacchiere di Manda che la ragguagliava sull'ultimo problema con il suo ragazzo. Pensava ancora alla stupida lite con sua madre, durata un intero fine settimana, e al discorso che le aveva fatto suo padre quella mattina, prima di andare al lavoro. Quando Ali fece una smorfia e le altre risero, Jessica si unì alle risate, senza sapere perché.
Sentì come un solletico, e mosse la mano per lisciare la gonna. Vide la faccia di Manda cambiare espressione, la bocca aprirsi, ma non udì il grido che ne uscì. Jessica stava già provando l'agonia delle fiamme sulle gambe, mentre si precipitava lontano dal recinto...
Tanto tempo dopo, Carol Chamberlain immaginò il panico e il dolore, scioccata come sempre davanti agli eventi insopportabili che si dispiegavano nella sua mente.
Orribilmente rapido. Spaventosamente lento...
Un'ora prima dell'alba. Nella stanza da letto era ancora buio, ma la luce accecante di un incendio innaturale splendeva dietro i suoi occhi. Con una specie di chiaroveggenza a posteriori,Carol vedeva e sentiva ogni cosa.
Vide le ragazze con le bocche spalancate e gli occhi fissi, che si allontanavano di corsa dalle fiamme. E dalla loro amica.
Vide Jessica attraversare a zig-zag il campo da gioco, mulinando le braccia. Udì le grida, il tonfo delle scarpe sull'asfalto, lo sfrigolio dei capelli raggiunti dal fuoco.
Vide una ragazzina correre come un bengala sulla strada, e poi rallentare, spegnendosi poco a poco...
E vide il viso di un uomo. Il viso di Rooker, che si voltò e scese di corsa dal pendio, con le gambe che andavano sempre più in fretta. Rischiò di inciampare diverse volte, mentre si dirigeva verso l'auto che aveva lasciato sulla strada. Ma non cadde.
Carol Chamberlain fissò il telefono, pensando alla telefonata anonima che aveva ricevuto pochi minuti prima. Un semplice messaggio, da un uomo che non poteva essere Gordon Rooker.
«Sono stato io a darle fuoco...»
CAPITOLO 1
Il treno era fermo tra Golders Green e Hampstead, quando la donna salì a bordo.
Le sette di sera di lunedì. I passeggeri, un campione di varia umanità londinese. Persone che rientravano tardi o uscivano presto per andare a passare la serata nel West End. Giacche, cravatte e copie dell'«Evening Standard». Tailleur da ufficio e un thriller tra le mani. Scarpe da basket e abiti casual. Teste che ondeggiavano nel sonno, o si muovevano a tempo di musica, ascoltando una canzone dei Coldplay, di Craig David o dei DJ Shadow.
Il treno partì e si fermò di nuovo pochi secondi dopo. I passeggeri della Northern Line ci erano abituati. Fissarono i piedi di quelli di fronte, o lessero le pubblicità sopra le loro teste. A parte il pulsare dei bassi che filtrava dalle cuffie, il silenzio amplificava la solitudine di ciascuno.
In fondo al vagone erano seduti due ragazzi neri. Uno dimostrava quindici o sedici anni, ma probabilmente era più giovane. Indossava una bandana rossa, una felpa americana troppo grande, jeans larghissimi e una quantità di anelli e collane. Il ragazzo accanto a lui, probabilmente suo fratello minore, era vestito in modo quasi identico.
All'uomo che sedeva di fronte i vestiti, le collane e soprattutto l'atteggiamento sembravano ridicoli, in un ragazzino le cui costose scarpe da jogging non toccavano neppure il pavimento. L'uomo era un quarantenne robusto, con una giacca di pelle marrone, e si chiamava Tom Thorne. Si passò una mano tra i capelli, che erano più grigi da un lato della testa, pensando che se esisteva un negozio chiamato "Il piccolo gangster", sicuramente era lì che quei due si compravano i vestiti.
Quando la donna entrò, l'atmosfera nel vagone cambiò. I passeggeri si chiusero, se possibile, in un silenzio ancora maggiore. Molto, molto inglese...
Thorne notò il foulard intorno alla testa, le sopracciglia nere e folte e il bambino in braccio. Poi distolse lo sguardo. Non si nascose dietro un giornale, come molti intorno a lui, ma dovette ammettere che era solo perché non ne aveva uno.
Si guardò le scarpe, ma vide lo stesso la mano tesa, con il bicchiere di polistirolo in cui risuonavano alcune monete. La donna parlava piano, in una lingua che lui non conosceva. Ma il significato era chiaro.
Percorse tutto il vagone, tendendo il bicchiere davanti a ciascun passeggero, senza ricevere neppure un centesimo. Thorne fissò la curva sotto il cardigan nero, segno evidente di una gravidanza, e sentì una fitta di dolore, per quella donna e per se stesso.
Il ragazzo più grande si chinò verso il fratello e sibilò: «Odio questa gente...».
Thorne era ancora depresso quando scese alla stazione di Kentish Town Road e, pochi minuti dopo, si chiuse alle spalle la porta di casa. Ma il suo umore non sarebbe restato nero a lungo.
Dal soggiorno, al di sopra del rumore della tivù, una voce gridò, in tono risentito: «Ti sembra questa l'ora di tornare a casa?».
Thorne posò la borsa, attraversò il corridoio e vide Phil Hendricks steso sul divano. Il patologo era più alto, più magro e dieci anni più giovane di lui. Era vestito di nero, come sempre: jeans e una felpa dal collo a "V", con il solito assortimento di piercing sul viso. Thorne sapeva che l'amico aveva dei piercing anche in altri posti, ma non aveva mai voluto approfondire l'argomento.
Hendricks puntò il telecomando e spense la tivù. «La cena ormai è fredda.» Normalmente aveva la delicatezza di un carro armato, perciò il suo tentativo di adottare una vocina effeminata fece sorridere Thorne.
«Certo» disse. «Come se tu sapessi cucinare anche solo un uovo sodo.»
«Va bene, diciamo che, se l'avessi preparata, a questo punto si sarebbe raffreddata.»
«Cosa si mangia, comunque?»
Hendricks si passò una mano sul cranio rasato. «Il menu è accanto al telefono» disse, indicando un tavolino nell'angolo. «Io prendo il solito, più un riso con i funghi.»
Thorne si tolse la giacca e andò ad appenderla nell'ingresso. Poi tornò indietro, abbassò il riscaldamento, tolse dal tappeto gli stivali da motociclista di Hendricks e li portò nell'ingresso.
Infine prese il telefono e chiamò il Bengali Lancer.
Hendricks dormiva sul divano letto del suo appartamento più o meno da Natale. Doveva restare solo una settimana, mentre i muratori facevano del loro meglio per eliminare l'allarmante collezione di muffe che si era annidata in casa sua, ma come sempre in questi casi la stima era risultata troppo ottimistica. Thorne non aveva capito bene perché Hendricks non fosse andato a stare a casa del suo fidanzato del momento, Brendan. In fondo passava da lui almeno un paio di notti alla settimana. L'unica spiegazione che era riuscito a darsi era che, con una relazione tempestosa come la loro, anche un trasloco temporaneo sarebbe stato rischioso.
Così Hendricks aveva finito per accamparsi nel suo appartamento, ma lui doveva ammettere che si godeva la compagnia. Discutevano in modo franco dei meriti rispettivi degli Spurs e dell'Arsenal, dell'amore sviscerato di Thorne per la musica country, della sua improvvisa passione per l'ordine e la pulizia.
Mentre aspettavano la cena indiana, Thorne mise un CD di Lucinda Williams. Hendricks si lamentò come al solito di quello che gli toccava ascoltare, poi cominciarono a parlare d'altro.
«Mickey Clayton è morto per una serie di ferite da arma da fuoco alla testa» disse Hendricks.
Thorne lo fissò da sopra la sua lattina di birra. «Non deve essere stato difficile scoprirlo. La sua testa era quasi interamente spiaccicata sulle pareti.»
Hendricks fece una smorfia. «Il rapporto completo sarà sulla tua scrivania domani pomeriggio.»
«Grazie, Phil.» Thorne si divertiva a prenderlo in giro, ma Phil Hendricks, oltre a essere il suo migliore amico, era anche il miglior patologo con cui avesse mai lavorato. Malgrado le apparenze e gli inevitabili sarcasmi, non c'era nessuno che riuscisse ad analizzare un cadavere meglio di lui.
«Hai trovato il proiettile?» chiese Thorne. L'assassino aveva usato una nove millimetri. Nei casi precedenti, ciò che restava dei proiettili era sempre stato recuperato accanto o all'interno del cranio delle vittime.
«Non c'è bisogno di comparare i proiettili per sapere che si tratta della stessa mano.»
«L'X-Man?»
Il cadavere era stato scoperto la mattina del giorno prima. Aveva la camicia di poliestere tirata su fino al collo, e due profondi tagli diagonali incrociati, dalla spalla sinistra al fianco destro, e da quella destra al fianco sinistro.
«Non sono ancora sicuro riguardo alla lama» disse Hendricks. «Pensavo a un coltello a serramanico, ma potrebbe anche trattarsi di un machete, o di un'arma del genere.»
Thorne annuì. Il machete era una delle armi preferite da un discreto numero di gang. «Gli Yardies, le bande giamaicane, o la Yakuza, forse.»
«Questo non posso saperlo. Quello che so è che quel tipo se la gode a tagliuzzarli. Li finisce a colpi di pistola, ma a quanto sembra li incide mentre sono ancora vivi.»
Il responsabile della morte di Mickey Clayton e di altri tre uomini in sei settimane era molto diverso da tutti i killer a contratto che Thorne aveva incontrato o di cui aveva sentito parlare. Di solito si trattava di persone che cercavano di mantenersi il più anonime possibile. Questo invece amava lasciare il suo marchio. «Una X, come se fosse la sua firma» disse Thorne.
«La X si usa anche per cancellare qualcosa.» Hendricks vuotò la sua lattina. «Ma parlami di te. Hai avuto una buona giornata, in ufficio?»
Thorne grugnì e si alzò. Afferrò la lattina vuota di Hendricks e andò in cucina a prendere altre due birre. Mentre fissava l'interno del frigo, cercò invano di ricordare quando era stata l'ultima volta che aveva avuto una buona giornata in ufficio...
La sua squadra, di cui Hendricks era l'unico membro estraneo alla polizia, faceva parte dell'Unità per i Reati Gravi (Ovest), e attualmente era stata assegnata a un lavoro in collaborazione con la Squadra operativa dell'SO7, l'Unità per il Crimine Organizzato. Ma a differenza del crimine, loro non erano affatto organizzati. Le risorse dell'SO7 erano troppo scarse, o almeno questa era la giustificazione corrente. Era in atto una guerra di territorio tra due importanti famiglie a sud del fiume, e l'escalation di violenza tra le gang della Triade aveva fatto registrare tre sparatorie in una settimana, oltre a una vera e propria battaglia in Gerrard Street.
Ciò nonostante, Thorne sospettava che il compito principale suo e della sua squadra fosse quello di parare il culo agli altri.
Se avessero arrestato qualcuno, il merito sarebbe andato altrove, e comunque non c'era molta soddisfazione nel dare la caccia all'assassino di un bastardo dello stampo di Mickey Clayton.
La serie degli omicidi della "X", di cui quello di Clayton era il quarto, faceva parte di un attacco contro una delle maggiori gang di Londra, ma la Squadra operativa non aveva la minima idea di chi fosse l'aggressore. Tutti i rivali possibili erano stati presi in considerazione e poi scartati. Tutti gli informatori erano stati pagati e spremuti, ma nulla di ciò che avevano detto si era rivelato utile. Era chiaro che si trattava di una nuova formazione, ansiosa di conquistarsi un posto al sole. Thorne e la sua squadra erano stati chiamati per scoprire di chi si trattava. Chi aveva assunto un killer, subito soprannominato X-Man, per danneggiare la famiglia Ryan?
«Quel tizio si sta rendendo la vita difficile» disse Thorne, mentre portava le birre in soggiorno. «La storia della X lo limita parecchio. Non può semplicemente farli fuori da una moto, o aspettarli all'uscita di un pub. Ha bisogno di tempo e di spazio.»
Hendricks prese una lattina. «È un lavoro davvero complesso. E piuttosto costoso, immagino.»
«Dipende da quali sono i termini di paragone» disse Thorne. «Il massimo compenso per un omicidio si aggira sulle venti, venticinquemila sterline. Molto meno di quello che i suoi datori di lavoro spendono per le loro Jeep e Mercedes.»
«Cosa posso permettermi con qualche centinaio di sterline?» chiese Hendricks. «C'è un assistente all'obitorio di Westminster che mi sta proprio sul culo.»
Thorne ci pensò su un attimo. «Non saprei. Qualche dito fratturato, forse.»
La risata che seguì era la prima che Thorne condivideva con qualcuno da giorni.
«Ma come può trattarsi degli Yardies o della Yakuza?» disse Hendricks. «Sappiamo che il killer non è nero né giapponese.»
Un testimone sosteneva di aver notato l'assassino allontanarsi dalla scena del terzo delitto, e aveva fornito la vaga descrizione di un maschio bianco sulla trentina. Il testimone, Marcus Moloney, era un affiliato della famiglia Ryan, e non esattamente un cittadino modello. Ma sembrava piuttosto sicuro di quello che aveva visto.
«Non è così semplice» disse Thorne. «Dieci anni fa sarebbe stato così: ognuno con quelli della sua razza. Ora non importa più nulla a nessuno, e i freelance vanno ovunque ci sia lavoro. Le Triadi usano gli Yardies, gli Yardies lavorano con i russi. L'anno scorso hanno beccato una gang della Yakuza che reclutava di tutto: greci, asiatici, turchi...»
Hendricks sorrise: «È bello vedere che la malavita applica la legge sulle pari opportunità».
Thorne rispose con un grugnito, poi chiuse gli occhi e cominciò a tormentare il pizzo che si era lasciato crescere. Quella barbetta serviva a creare l'illusione di una mascella prominente, e copriva la cicatrice di una coltellata. Toccò la cicatrice, ricordando la notte di sei mesi prima, in cui aveva pregato chiedendo salva la vita o almeno che gli fosse inflitta una morte rapida...
C'erano anche altre cicatrici, più nascoste. Thorne si toccava la pancia, nel buio, sentendo la linea irregolare di vecchie ferite, e le rivedeva aperte, con il sangue nero sulla carne, la crosta in formazione, il prurito che lo spingeva a grattarsi fino a sanguinare di nuovo...
Lucinda Williams cantava di una voglia bruciante di sesso, con una voce dolce e graffiante allo stesso tempo, che si levava come fumo sopra la chitarra acustica.
Thorne ed Hendricks ebbero entrambi un soprassalto quando squillò il telefono.
«Tom?» disse una voce femminile.
Thorne si lasciò andare contro lo schienale della poltrona e gridò a Hendricks, per farsi sentire anche dalla persona al telefono: «Oh, Cristo, è quella vecchia pazza che mi perseguita».
«Dille che sento odore di cibo per gatti fin da qui» gridò Hendricks di rimando.
«Bene, Carol» disse Thorne. «Raccontami cosa succede a Worthing. Qualche gatto è rimasto intrappolato su un albero?»
La donna all'altro capo del filo non era dell'umore giusto per i soliti scherzi. «Devo parlarti, Tom. E tu devi ascoltarmi.»
Thorne ascoltò. La cena al curry arrivò e si raffreddò, ma lui non ci fece neppure caso.
Da quando conosceva Carol Chamberlain, era la prima volta che la sentiva piangere.
CAPITOLO 2
«Immagino che tu abbia già provato a contattare il 1471...»
Carol Chamberlain sollevò un sopracciglio e gli chiese se la considerava una deficiente.
Thorne alzò le spalle e si scusò.
Quando l'aveva conosciuta, l'anno prima, l'aveva presa per la classica pensionata con troppo tempo a disposizione, non solo, ma l'aveva scambiata per la madre di un agente.
Lei diceva sempre di non averlo ancora perdonato per questo.
L'ex ispettore capo Carol Chamberlain era entrata nell'ufficio di Thorne in un'afosa mattina di luglio, sette mesi prima, fornendogli l'indizio fondamentale per rintracciare un serial killer che violentava sadicamente le sue vittime prima di ucciderle. Carol faceva parte dell'Unità Riesame Casi Irrisolti, nota ufficiosamente come "La squadra dei ripescati", perché era composta di agenti e funzionari in pensione, che dedicavano il loro tempo libero a lavorare su quelli che venivano definiti casi "freddi".
Carol Chamberlain non aveva avuto bisogno di incoraggiamenti per tornare in servizio. Era stata costretta, così almeno diceva, a lasciare la polizia londinese a soli cinquantacinque anni, dopo trent'anni di servizio, e sentiva di avere ancora molto da dare. Le sue informazioni avevano cambiato il corso delle indagini di Thorne, e in seguito anche quello della sua vita. Ovviamente il caso era stato rapidamente tolto dalle mani della donna, ma Thorne aveva apprezzato il suo aiuto, e i due si erano mantenuti in contatto, diventando così amici.
Thorne non era certo di cosa ci trovasse Carol Chamberlain nel loro rapporto, ma lui era ben contento di dare tutto quello che poteva, in cambio dei suoi modi diretti, dei suoi consigli sensati e della sua abilità nell'individuare le menzogne, un'abilità che sembrava diventare sempre più acuta con l'avanzare degli anni.
Guardandola ora, Thorne si chiedeva come avesse potuto fare un tale errore di valutazione, la prima volta che l'aveva vista. Carol sollevò la busta color panna, poi rovesciò le ceneri sul tavolo. «Queste sono arrivate ieri mattina.»
Thorne toccò con una forchetta i pezzetti di tessuto annerito, stando molto attento a non usare le mani. Non aveva ancora idea di cosa fare. I pezzi si sbriciolarono al tocco, ma un paio mantenevano ancora il colore blu originale.
«Li farò esaminare» disse. Con l'angolo del menu fece scivolare di nuovo le ceneri nella busta.
Chamberlain annuì. «È tela, credo. O comunque cotone pesante. Lo stesso tessuto della gonna di Jessica Clarke...»
Thorne pensò a quelle parole, e alle altre che lei gli aveva detto al telefono, la sera prima. Ricordava poco di quel caso, solo che aveva destato un grande scalpore, ma i particolari orripilanti che Carol gli aveva rivelato al telefono gli erano completamente nuovi.
«Che razza di pazzo fottuto può fare questo a una bambina?» disse, a voce alta. Poi si guardò intorno, sperando che i clienti ai tavoli vicini non l'avessero sentito.
Carol aspettò che tornasse a voltarsi verso di lei, e lo guardò negli occhi. «Uno che è pagato per farlo.»
«Cosa?»
«Allora tutti pensammo che si trattasse di un pazzo. Noi, la scuola, i giornali. E restammo in attesa che ripetesse il gesto. Poi scoprimmo che Jessica Clarke era la ragazza sbagliata...»
«Sbagliata? In che senso?»
«Non era lei il bersaglio, ma Alison Kelly. Era la sua migliore amica e quel giorno le stava accanto. Stessa altezza, stesso colore di capelli. Ed era anche la figlia minore di Kevin Kelly.» Chamberlain fissò Thorne, come se si aspettasse una reazione.
Thorne scosse la testa. «Dovrei...?»
«Lasciami ricapitolare la situazione del 1984. Tu quanti anni avevi?»
Thorne fece un rapido calcolo. «Stavo per lasciare il servizio in uniforme. Stavo per sposarmi. Sparavo le mie ultime cartucce. Andavo in discoteca, ai concerti...»
«Vivevi nella parte nord di Londra, giusto?»
Thorne annuì.
«Bene, quasi tutti i locali in cui mettevi piede erano di proprietà di una grossa "ditta", e quella di Kelly era la più grossa di tutte. Ce n'erano altre che stavano prendendo il controllo del sud-est, e ce n'erano anche di indipendenti, ma Kelly aveva le mani in pasta in quasi tutto quello che succedeva a nord del fiume...»
Mentre ascoltava, Thorne notò che il normale tono misurato di Chamberlain era scomparso, lasciando emergere il suo accento dello Yorkshire. Era una cosa che le accadeva solo quando era irritata o eccitata per qualcosa.
«I Kelly avevano la loro base operativa a Camden Town e dintorni. C'erano altre famiglie a Sheperd Bush e ad Hackney, e normalmente risolvevano le questioni tra loro in modo tranquillo. Di tanto in tanto qualcuno rompeva le righe e cominciava a sparare, ma non succedeva spesso. Poi, nel 1983, qualcuno organizzò un attentato contro Kevin Kelly...»
«Vuoi dire utilizzando un killer?»
«Esatto. Ma per un motivo o per l'altro, l'impresa non riuscì, e il messaggio non fu compreso. Così pensarono di ammazzare sua figlia.»
«Ma anche in questo caso fecero fiasco. Cristo...»
«Tuttavia stavolta Kelly comprese il messaggio. Nelle tre settimane successive alla morte di Jessica Clarke furono eliminate almeno dodici persone. Tre fratelli di una famiglia rivale vennero uccisi insieme in un pub. Kevin Kelly praticamente spazzò via tutti i suoi avversari.»
Thorne sollevò la sua tazza. Il caffè era diventato ormai freddo. «Quindi Kelly e i suoi amici restarono padroni della zona nord di Londra.»
«I suoi amici sì, Kelly no. L'omicidio mancato della figlia gli tolse coraggio. Dopo aver eliminato la concorrenza andò in pensione. Prese la moglie, la figlia e un paio di milioni di sterline, e si ritirò dal gioco.»
«Una buona mossa, direi.»
Chamberlain scrollò le spalle. «Morì cinque anni più tardi. Aveva appena compiuto cinquant'anni.»
«E chi restò a controllare la famiglia, dopo che Kelly decise di dedicarsi alla pipa e alle pantofole?»
«La famiglia, nel suo caso, era solo un modo di dire. Non aveva figli o fratelli. Consegnò tutta l'organizzazione nelle mani di un amico, un bastardo pericoloso di nome William Ryan. Era il numero due di Kelly, e...» Chamberlain vide l'espressione di Thorne e s'interruppe. «Cosa c'è?»
«Quando avrai finito la lezione di storia, devo aggiornarti sugli ultimi sviluppi.»
«Va bene.» La donna mise giù il cucchiaino con cui stava giocherellando da almeno dieci minuti.
Thorne spinse indietro la sedia. «Io prendo un altro caffè. Tu vuoi qualcosa?»
Si erano incontrati in un piccolo caffè greco dalle parti di Victoria Station. Chamberlain aveva preso il primo treno da Worthing, quella mattina, e voleva tornare a casa appena possibile.
Mentre faceva la fila al banco, Thorne la guardò di sottecchi. Gli sembrava che fosse dimagrita. Normalmente ne sarebbe stata contenta, ma in quel momento la sua vita sembrava tutt'altro che normale. Chamberlain incrociò il suo sguardo e gli sorrise, mostrando tutte le sue rughe. Ebbe l'impressione improvvisa di trovarsi di fronte una donna anziana... e spaventata.
Thorne portò al tavolo un vassoio con due caffè e una baklava da mangiare metà per uno. Tra un boccone e l'altro, parlò a Chamberlain dell'operazione dell'SO7, della situazione attuale del crimine organizzato a Londra nord, e dell'attacco nei confronti di un potente boss di nome Billy Ryan.
«Sono contenta di sapere che Billy abbia avuto successo, nella vita» disse Chamberlain.
Thorne riconobbe la Carol di un tempo, ironica e sorridente. «Be', quanto a successo, ne ha avuto parecchio» disse. «E quella di Ryan è una vera famiglia: fratelli e cugini dappertutto, nonché un erede designato: suo figlio.»
«Stephen. Me lo ricordo. All'epoca aveva cinque o sei anni.»
«Ora è cresciuto. E sembra un vincente, da tutti i punti di vista.»
Chamberlain prese di nuovo il cucchiaino e lo batté contro il palmo dell'altra mano. «Billy in seguito sposò Alison Kelly.»
«La figlia di Kevin Kelly? Quella che...»
Lei annuì. «Quella che rappresentava il vero obiettivo di Gordon Rooker. Era lei la vittima designata, non Jessica Clarke. Alison e Billy Ryan si sposarono appena prima della morte di Kevin. Ma non poteva durare. Lei aveva appena compiuto diciotto anni, se non sbaglio, mentre lui ne aveva già almeno trentacinque, con un figlio da un'altra donna.»
«Non esattamente un idillio, insomma.»
«Credo che sia durata un paio d'anni al massimo. Poi Billy tornò con la donna da cui aveva avuto Stephen. E qualche tempo dopo divorziò da Alison e sposò quell'altra.»
Thorne indicò l'ultimo pezzo di baklava. «La sto mangiando tutta io. Non ne vuoi un po'?» Lei scosse la testa, e Thorne affondò il cucchiaino. «Parlami di Rooker» disse.
«Non c'è molto da dire. Era reo confesso.»
«Una cosa che aiuta sempre le indagini.»
Lei non sorrise. «Tom, sembrava il caso più semplice al quale avessi mai lavorato. Ero ispettore, all'epoca. Fui io a mettere a verbale la sua deposizione.»
«E...?»
«Sembrava convincente. Rooker era già noto alle forze dell'ordine. Quello che fece a Jessica Clarke era un po' fuori dall'ordinario, ma lui era un tipo senza scrupoli. Bastava che lo pagassero ed era disponibile a tutto.»
Thorne aveva incontrato molte persone del genere, nella sua carriera. E sembrava che fosse destinato a conoscerne sempre di più. «Fece il nome di chi lo aveva pagato?»
«Non arrivò fino a questo punto, ma non ce n'era bisogno. Sapevamo che aveva lavorato per alcune "ditte" più piccole. Forse era stato lui l'autore dell'attentato fallito contro Kevin Kelly. E infine, a Rooker piaceva dare fuoco alla gente. Non era stato mai provato, ma sospettavamo che fosse lui l'autore di un omicidio su ordinazione, nel 1982: qualcuno aveva legato a una sedia il direttore di un'azienda specializzata in sistemi di sicurezza, e gli aveva versato una tanica di combustibile sui capelli...»
«Che uomo affascinante...»
«Di fatto, lui era convinto di esserlo. Flirtava persino con me, durante l'interrogatorio.» Chamberlain si interruppe, come se le fosse salita in gola una zaffata di acido. «Come dicevo, fu un caso molto semplice. Rooker confessò e fu condannato all'ergastolo. E ieri, quando ho chiamato per controllare, era ancora rinchiuso nel carcere di Park Royal.»
«E Jessica? Cosa ne è stato di lei?»
Chamberlain guardò fuori dalla vetrata, alle spalle di Thorne. «Le ustioni erano gravissime. Ci volle oltre un anno perché potesse tornare a scuola.»
«E ora? Cosa fa?»
Lei scosse la testa. «Non penserai sul serio che ci sia stato un lieto fine» disse, quasi in un sussurro.
«Sarebbe bello che ce ne fosse almeno uno, di tanto in tanto.»
Lei tornò a guardarlo in faccia, con un'espressione quasi materna. «Jessica Clarke si è buttata dall'ultimo piano di un parcheggio, il giorno del suo sedicesimo compleanno.»
Muslum Izzigil imprecava ininterrottamente da dieci minuti, quando i due ragazzi entrarono nel suo negozio.
Stava sistemando un'enorme pila di videocassette, che erano state restituite durante la notte. Tutte avevano bisogno di essere riavvolte.
Le persone che restituivano le videocassette senza prendersi il disturbo di riavvolgerle erano il cruccio della sua vita. Afferrò un nastro dal lettore, lo sbatté nel fodero, e allungò la mano per prenderne un altro. «Pigri bastardi...»
Gettò un'occhiata ai due ragazzi, che stavano curiosando nel cesto delle cassette usate in vendita a un terzo del prezzo. Fece una smorfia. «È così complicato riavvolgere un nastro, eh?» Uno dei ragazzi lo fissò con lo sguardo vuoto. L'altro disse qualcosa a bassa voce e cominciò a ridere. Izzigil premette rewind per l'ennesima volta, guardò lo schermo in alto, dove scorreva un film di Austin Powers, poi tornò a rivolgere la sua attenzione ai ragazzi.
«Le novità sono da questa parte» disse. «Se non trovate il film che cercate, la prossima volta è gratis. Proprio come da Blockbuster.»
I due stavano estraendo cassette dalla sezione per adulti, per guardare le immagini sul retro. Uno si sfregò una cassetta sull'inguine, leccandosi le labbra.
«Ehi» disse Izzigil, facendo un gesto con la mano. «Non fate casino.»
I ragazzi si diressero verso di lui con un buon numero di cassette tra le braccia, e le lasciarono cadere sul banco. Uno era più alto dell'altro di quasi trenta centimetri, ma entrambi erano ben piantati. Indossavano berretti da baseball e bomber, come i ragazzi neri che Izzigil vedeva nei centri commerciali il sabato pomeriggio.
«C'è niente con donne turche?» chiese il più alto.
L'altro si chinò verso Izzigil. «Al mio amico piacciono molto pelose...»
Izzigil si sentì arrossire. Non disse nulla e cominciò a impilare le cassette sul banco.
Il ragazzo più basso infilò una mano in tasca. «Qualunque cosa tu abbia, spero proprio che sia meglio di questa.» Tirò fuori una cassetta dalla custodia nera, senza immagini. «L'ho noleggiata qui qualche giorno fa.»
Izzigil scosse la testa. «Non è una delle mie. La custodia è diversa. Guardate...»
«Stai cercando di fregarmi?» disse il ragazzo.
«Vogliamo indietro i nostri soldi, amico» rincarò l'altro.
In quel momento Izzigil sentì la puzza. Abbassò una mano sotto il bancone. «Andate via, prima che chiami la polizia.»
Quello alto aprì la custodia e lasciò cadere sul banco la merda che conteneva.
Izzigil fece un passo indietro. «Cristo!»
Il ragazzo rise. Il suo amico, con un'espressione semiseria, disse: «Era un film di merda, amico».
«Uscite subito dal mio negozio, stronzi!» Izzigil fece per prendere la stecca da bigliardo segata che teneva sotto il banco, ma improvvisamente si trovò un coltello a pochi centimetri dalla faccia.
«Hai ricevuto una lettera...» disse il più basso, con il coltello puntato.
«Una lettera? Non ho ricevuto nessuna lettera.»
«Degli amici nostri ti hanno mandato una lettera, in cui ti offrivano la possibilità di comportarti come un vero uomo d'affari, ma tu non hai fatto niente. Perciò da ora in poi non sprecheremo più tempo a scrivere. È chiaro il concetto?»
Izzigil annuì.
«La prossima volta potremmo tornare mentre sei di sopra a scoparti quella pelosona di tua moglie, e tuo figlio bada al negozio...»
Izzigil annuì di nuovo, e seguì con lo sguardo l'altro ragazzo che percorreva lentamente il locale, gettando a terra intere file di cassette. Un cliente posò la mano sulla maniglia, poi fece una faccia spaventata e scomparve immediatamente.
Il ragazzo più basso indietreggiò, e si infilò il coltello nella tasca posteriore dei jeans. «Qualcuno verrà a farti visita tra una settimana o due, per sistemare le cose» disse.
Izzigil strinse la mano intorno alla stecca. Era troppo tardi per cercare di usarla, i due stavano già uscendo, ma il gesto gli venne automatico.
Sullo schermo del televisore, Austin Powers danzava al suono di una canzone di Madonna. Izzigil uscì da dietro il banco e si diresse verso la porta. Senza aprirla, cercò di guardare da un lato e dall'altro della strada.
«Muslum...?»
Izzigil si voltò sentendo la voce della moglie. Vide i suoi occhi spalancarsi all'improvviso e si voltò, appena in tempo per vedere la forma nera che volava verso la porta. Poi il mondo sembrò esplodere in una cascata di frammenti di vetro, rumore e dolore.
Thorne e Chamberlain si diressero a piedi verso la stazione, lungo Buckingham Palace Road. Era l'ora di pranzo, e molte persone facevano la fila fuori dai negozi di panini e dalle caffetterie. Il freddo di febbraio mordeva, e Thorne teneva le mani in tasca, con la cerniera della giacca tirata fino al collo.
«Come l'ha presa Jack?»
Carol Chamberlain si fermò un attimo per lasciar passare una ragazza che andava di fretta. «Come sempre. Cerca di essere d'aiuto, ma in realtà lui non voleva che tornassi a lavorare. Ha paura che mi affatichi troppo. Io invece mi sentivo impazzire, chiusa in casa.» Si vide riflessa in una vetrina, e si passò una mano tra i capelli. «Non me ne frega niente del giardinaggio.»
«Intendevo dire come ha preso questa storia. Le telefonate, la lettera...»
«Della lettera non ne sa nulla, e ha sentito una sola telefonata: gli ho detto che era qualcuno che aveva sbagliato numero. Le altre sono arrivate mentre lui dormiva.» Chamberlain si avvolse meglio la sciarpa intorno al collo. «Adesso passo le nottate accanto al telefono. Quando non suona è quasi peggio.»
«Non dormi? Questa storia va avanti da due settimane, Carol.»
«Recupero di giorno. E comunque non ho mai dormito molto.»
«Com'è la sua voce?» chiese Thorne.
Lei rispose subito. Sembrava sapesse in anticipo tutte le domande che lui le avrebbe fatto, perché erano le stesse che avrebbe fatto lei al suo posto.
«È molto calmo. Come se mi stesse raccontando cose ovvie. Come se mi stesse ricordando cose che avevo dimenticato...»
«Accento?»
Lei scosse la testa.
«Un'idea sull'età?»
Un altro cenno negativo della testa.
«Ascolta, so che ti sembrerà strano, ma devo chiedertelo: perché non hai chiamato la polizia?»
Chamberlain aprì la bocca per rispondere, ma Thorne la fermò. «Intendo i ragazzi locali. Si tratta solo di un matto, Carol. O di qualcuno che vuole tenerti sulla corda. Qualche appassionato di gialli che non ha niente di meglio da fare.»
«Sa troppe cose. Cose che non sono mai state pubblicate sui giornali. Sa dell'accendino trovato sulla scena del delitto, conosce la marca del carburante usato...»
«Allora deve essere qualcuno che è stato in cella con Rooker. E che ti tormenta per incarico dello stesso Rooker.»
Lei scosse la testa. «Rooker non ha motivo di mandare qualcuno a tormentarmi. Ha confessato spontaneamente. E inoltre io gli piacevo.»
«Comunque aveva un rapporto con te. Sei stata tu a prendere la sua deposizione. Per questo le telefonate arrivano a te e non al funzionario che a suo tempo si occupò del caso.»
«No, il fatto è che io sono più facile da rintracciare. L'ispettore capo che diresse le indagini sul caso di Jessica Clarke ha lasciato la polizia dieci anni fa, e ora vive in Nuova Zelanda.»
La spiegazione aveva senso, ma Thorne aveva ancora un'altra idea. «Potrebbe anche essere che l'uomo che ti chiama sappia che tu sei rimasta particolarmente... colpita da quello che è accaduto a Jessica.»
Lei alzò gli occhi a fissarlo. «E come potrebbe saperlo? Come fai tu a saperlo?»
Camminarono in silenzio per una cinquantina di metri. Poi Thorne disse: «Sei preoccupata di aver mandato in galera l'uomo sbagliato, Carol? Si tratta di questo?».
«No. Sono certa che è stato Rooker ad appiccare il fuoco a Jessica Clarke.»
Proseguirono senza parlare fino alla stazione. Mentre attraversavano l'atrio Chamberlain disse: «Non c'è bisogno che resti ad aspettare con me. Il treno parte tra un quarto d'ora».
«Oh, va benissimo. Ho tempo.»
«Torna al lavoro. Io comprerò una rivista, farò un giro. A volte mi piace stare un po' da sola. Ricordati che sono una vecchia signora piena di manie.»
«Non sei affatto piena di manie.»
Lei lo abbracciò e lo baciò sulla guancia. «Questo vuol dire che sono vecchia, eh? Impudente.»
Thorne sospirò, sciogliendosi dall'abbraccio. «Non so cosa ti aspetti che faccia, Carol. Ufficialmente, non posso fare nulla di più di chiunque altro.»
«Infatti io non ti chiedo di fare nulla a livello ufficiale.»
Thorne si rese conto in quel momento di quanto lei fosse scossa, malgrado l'ironia di qualche attimo prima. E capì che lei non avrebbe mai voluto che altri se ne accorgessero. Non credeva che avrebbero smantellato l'Unità Riesame Casi Irrisolti, ma molti pensavano che la polizia non dovesse servirsi di persone che avrebbero dovuto passare le mattinate a fare la coda negli uffici postali.
«Ho capito» disse Thorne, alla fine. «Mi stai chiedendo di sprecare solo il mio tempo...»
Chamberlain girò sui tacchi, bilanciando la grossa borsetta sulla spalla. «Qualcosa del genere.»
Thorne restò a guardarla mentre entrava da WH Smith.
Tornando verso la metropolitana, pensò alle cicatrici nascoste, e a quelle che invece non si potevano nascondere. Cicatrici così brutte da convincerti a buttarti dall'ultimo piano di un parcheggio.
CAPITOLO 3
Quelle stanze avevano sempre una cosa in comune. L'ampiezza poteva variare, lo stile dipendeva dall'epoca, e l'arredamento dai soldi a disposizione o dalle preferenze del capo. Ma l'odore era invariabilmente lo stesso. Cromo e vetro fumé, o cartongesso arancione. Stanze gelide o surriscaldate. Intime o l'esatto contrario. Qualunque fosse l'ambiente, l'odore ti avrebbe fatto capire dov'eri, anche se fossi entrato con un sacco infilato sulla testa.
Thorne poteva distinguerne i singoli ingredienti, come un intenditore: fumo rancido di sigarette, sudore e disperazione.
Si guardò intorno. Lì dentro il deodorante alla magnolia si mescolava all'aria calda prodotta dai radiatori fuori misura. E un nuovo sistema di sedie colorate, blu per i visitatori, rosse per i detenuti.
Molte erano occupate, ma ce n'era ancora qualcuna libera. Una donna nera gli gettò un'occhiata. La sedia di fronte a lei era vuota. Fece un sorriso nervoso, stringendo gli occhi dietro gli occhiali spessi, e distolse lo sguardo prima che Thorne potesse restituirle il sorriso. Si illuminò in viso mentre un giovane si avvicinava. Probabilmente era suo figlio. L'uomo fece un largo sorriso, poi si guardò intorno per vedere se qualcuno si era accorto che aveva abbassato la guardia.
Thorne guardò l'orologio: quasi le dieci. Doveva fare in fretta e poi tornare in ufficio. Aveva chiamato l'agente speciale Dave Holland, mentre si dirigeva verso la prigione di Park Royal. «Devi coprirmi per qualche ora» gli aveva detto. «Racconta a Tughan che sono andato a far visita a un informatore, che sto seguendo una traccia, quello che ti pare. Fruga nel tuo repertorio.»
«E a me lo dice quello che ha in mente?»
«Sto facendo un favore a qualcuno. Dovrei essere di ritorno per pranzo, se il traffico resta normale.»
«È in macchina? Quando gliel'hanno restituita?»
Thorne si sentì un idiota per essersi lasciato sfuggire quell'informazione. Sospirò e disse: «Ieri sera».
L'auto in questione, una BMW, aveva almeno trent'anni, ed era costata a Thorne parecchi soldi, l'anno prima. Lui pensava che fosse un'auto classica. Altri preferivano definirla "vecchia". Holland, in particolare, non perdeva mai un'occasione per prenderlo in giro. Fin dal primo giorno, si era convinto che comprare quella BMW fosse stato un grosso errore. Thorne l'aveva portata dal meccanico dopo che non aveva superato il collaudo, due settimane prima.
«Quanto ha speso?» chiese Holland, sarcastico.
Thorne imprecò fermandosi a un semaforo rosso. «È un'auto piuttosto vecchia, no? Quindi i pezzi di ricambio sono cari.» Senza contare che, nel caso specifico, inoltre i pezzi da cambiare erano stati moltissimi. Thorne ricordava il senso crescente di disperazione, mentre il meccanico gli leggeva la lista. Per quanto ne sapeva lui di quello che avveniva sotto il cofano, il meccanico avrebbe potuto benissimo parlare serbocroato.
«Cinquecento?», insisté Holland. «O di più?»
«Ascolta, è vecchia ma è ancora splendida. Come una di quelle attrici che cominciano a mostrare i segni del tempo, ma fanno ancora sensazione.» Poiché si trattava di una BMW, Thorne aveva provato a farsi venire in mente un'attrice tedesca. «Felicity Kendal» aveva detto, innestando la marcia per ripartire.
«Felicity Kendal?» aveva ripetuto Holland, in tono divertito.
«Esatto. Lei è proprio come Felicity Kendal.»
«Quando qualcuno inizia a riferirsi alla sua macchina dicendo "lei", gli manca poco per comprarsi i guanti da guida senza dita e una bella pipa...»
Il rumore di una sedia tirata indietro riportò Thorne al presente. Alzò gli occhi e vide di fronte a sé Gordon Rooker, che si accomodava su una sedia rossa. Thorne non l'aveva mai visto prima, neppure in fotografia, ma lo riconobbe ugualmente.
«È libero questo posto?» chiese Rooker, con un sorriso che mise in evidenza un dente d'oro.
Era sulla sessantina, alto, con il viso magro e ben rasato. I capelli bianchi e folti erano ingialliti sopra la fronte a causa di una vita di sigarette.
Thorne indicò la pettorina verde che Rooker, come tutti i carcerati, indossava sotto la felpa blu regolamentare. «Molto carina» disse.
«Tutti dobbiamo portarle per forza» ribatté Rooker. «Molti direttori di prigione, incluso il nostro, le avevano abolite, una cosa bella e progressista. Poi un condannato a vita, a Gartree, si è scambiato con il fratello gemello ed è uscito senza che nessuno lo fermasse. Così ora deve essere molto chiaro in ogni momento chi è il carcerato e chi il visitatore, e dobbiamo essere tutti in divisa, durante le visite. Non sto inventando, glielo giuro.»
La voce era vivace ed espressiva. Era la voce di un filosofo da pub, roca a causa delle sigarette rollate a mano, ma affascinante. Thorne tirò fuori il mandato e lo mise sul tavolo. Rooker non lo guardò neanche.
«Cosa vuole, signor Thorne?» Alzò una mano. «No, lasci perdere, e facciamo soltanto due chiacchiere. Tanto me lo dirà lo stesso, no?»
«Sono un amico di Carol Chamberlain.»
Rooker socchiuse gli occhi.
«Probabilmente si chiamava Carol Manley, quando l'hai conosciuta, Gordon...»
Il dente d'oro riapparve. «È mai riuscita a diventare commissario? Secondo me ne aveva la stoffa.»
Thorne scosse la testa. «Sette od otto anni fa, quando si è ritirata, era ispettore capo.»
«Era in gamba, sa?» Rooker distolse lo sguardo, come ricordando qualcosa. «E non mi sorprende che si sia sposata. Era attraente. Com'è adesso? Sempre una bella donna?» Si chinò attraverso il tavolò. «A lei piacciono un po' stagionate?»
Thorne non stette neppure a chiedersi se quei commenti miravano a metterlo a disagio o a forgiare una relazione personale. Semplicemente li ignorò. «Qualcuno la sta molestando. Uno spostato, che la tormenta con lettere e telefonate...»
«Oh, mi dispiace.»
«La persona in questione sostiene di essere il vero responsabile del tentato omicidio di Jessica Clarke.» Thorne fissò il suo interlocutore, in cerca di una reazione. «Dice di essere stato lui a darle fuoco.»
La reazione ci fu, ma Thorne fu colto di sorpresa, perché non credeva di aver detto nulla di divertente.
«Cosa c'è da ridere?» chiese.
«Mi scusi. Come ho già detto, mi dispiace per la Manley, o come si chiama ora, ma mi diverte sempre l'idea di qualcuno che a un certo punto si ritrova con il suo matto personale alle costole. Certo che, chiunque sia, ci ha messo un bel po' di anni a decidersi...»
«Mi stai dicendo che non sai chi sia?»
Rooker voltò i palmi delle mani verso l'alto. «Esatto. Non ne ho la minima idea.»
Thorne avrebbe scommesso diverse sterline sul fatto che diceva la verità.
«A me sono arrivate moltissime lettere, nel corso degli anni» continuò Rooker. «Ha presente, gente che scrive con l'inchiostro verde e preme così forte da bucare il foglio. Gente che vuole conoscere i particolari, perché li trova eccitanti. O donne pazze che dicono di volermi sposare...»
Un caso dell'anno prima, quando Thorne aveva conosciuto Carol Chamberlain, era iniziato proprio con una lettera di quel tipo. Quella non era autentica, ma molte lo erano, incredibilmente. «Be', Gordon, si vede che sei un buon partito.»
«Ma questa è una cosa diversa, vero? È qualcuno che vuole molestare. E poiché io qui dentro sono irraggiungibile, molesta un'altra persona coinvolta in quel caso, facendo finta di essere me. Facendo finta di essere lui il colpevole...»
Thorne decise che era arrivato il momento di andare al sodo. «Allora finge? Il motivo per cui sono qui è proprio questo: voglio esserne sicuro.»
La vivacità abbandonò il viso di Rooker. Le spalle si ingobbirono, la voce si abbassò. «Può esserne sicuro. Sono stato io a cercare di bruciare viva quella ragazza. Questo è il motivo per cui mi trovo qui.»
Per circa mezzo minuto Thorne lo osservò mentre fissava il piano del tavolo, esponendo alla vista il cuoio capelluto, rosato sotto i capelli bianchi. «Come hai detto tu, questo matto ha aspettato un bel po' di anni. E tu perché sei stato dentro tanto tempo, Gordon?»
Il viso tornò ad animarsi. «Lo chieda al giudice. Se c'è una giustizia, spero che sia morto, quel figlio di puttana.» Rise. «Anche se quello lì non avrebbe riconosciuto la giustizia neppure se gli avesse morso le palle.»
«Era un caso che ha fatto molto scalpore» disse Thorne. «Una condanna pesante era inevitabile.»
«Io non me l'aspettavo. Oggigiorno un sacco di gente fa a pezzi la moglie, e se la cava con dieci anni. A volte anche meno...»
Pur senza provare per lui alcuna simpatia, e sapendo che si meritava ogni secondo passato in galera, Thorne comprendeva il suo punto di vista. La condanna a vent'anni che era stata inflitta a lui, senza benefici, era due volte più pesante di molti cosiddetti ergastoli che poi si riducevano a una decina d'anni per buona condotta e amnistie varie.
«Non è stata una sentenza giusta» si lamentò Rooker. «Vent'anni. Vent'anni di sezioni PV...»
Thorne cercò di nascondere il sorriso. «Prigionieri Vulnerabili. Vuoi dire che sei ancora vulnerabile,Gordon?»
Rooker preferì non rispondere.
«Comunque certamente pericoloso. Vent'anni, e ancora in categoria B. Non hai fatto il bravo, a quanto sembra.»
«Ci sono stati alcuni incidenti...»
«Comunque hai quasi finito, giusto?»
«Mancano tre mesi a fine pena.»
Thorne si voltò di lato e incrociò lo sguardo della donna nera, che stava prendendo un fazzoletto dalla borsa. Poi tornò a fissare Rooker. «Non ti sembra una curiosa coincidenza, che questo tizio sia venuto fuori proprio adesso?»
«No. Questo è il miglior momento possibile per attirare l'attenzione. Quando io sto per uscire. Quando ho la possibilità di uscire. Perché non è affatto una cosa sicura.»
«È un RD? Un rilascio a discrezione?»
Rooker annuì. Una volta scontata la condanna, il Comitato Discrezionale per i Condannati a Vita poteva raccomandare il rilascio del prigioniero. Il comitato comprendeva un giudice, uno psichiatra e un altro professionista legato al caso, come per esempio un criminologo o un agente di vigilanza. L'esame includeva anche un colloquio, al quale il prigioniero poteva partecipare in compagnia di un amico o di un avvocato che lo rappresentasse.
«Non ho nessuna possibilità» disse Rooker. «Ho già avuto dei problemi, qui dentro.» Guardò Thorne, come in cerca di una spiegazione, di una rassicurazione. Non ricevette nulla. «Cosa devo fare? Sono andato dallo psicologo, ho frequentato Dio sa quanti corsi...»
«È il rimorso il punto chiave, Gordon.» A quella parola Rooker ebbe uno scatto indietro. Thorne continuò: «Quelli del comitato gli attribuiscono una grande importanza, per qualche misterioso motivo. Vogliono vedere una certa empatia con la vittima. Un minimo di comprensione di quello che hai fatto a quella ragazza, alla sua famiglia. E forse pensano che tu non sia abbastanza pentito, Gordon. Forse è questa la domanda che loro si pongono: "Dov'è il rimorso?"».
«Ma io ho confessato spontaneamente. Cosa volete di più?»
«Confessione e rimorso non sono la stessa cosa.»
Rooker allontanò la sedia dal tavolo con uno stridio da fare accapponare la pelle a Thorne. «Abbiamo finito?» chiese.
Thorne si alzò in piedi e guardò di nuovo alla sua destra, dove la donna nera singhiozzava, con il fazzoletto premuto contro la bocca, e incrociò lo sguardo del giovane seduto di fronte a lei.
L'uomo lo guardò come se volesse strappargli la testa dal collo.
Come promesso, Tom Thorne aveva telefonato appena uscito dal carcere. Le aveva raccontato del suo colloquio con Rooker e Carol Chamberlain l'aveva ascoltato mentre diceva proprio quello che lei voleva sentire. Eppure non aveva provato il sollievo che sperava.
Era seduta alla sua scrivania, nell'ufficio che Jack le aveva attrezzato in casa, in una stanza che usavano come ripostiglio. Adesso era meno ingombro di cose, visto che un sacco di cianfrusaglie erano state ammucchiate nell'armadio o sotto il letto, per lasciare spazio agli schedari. Quella stanza ormai veniva usata per dormirci solo quando la figlia che Jack aveva avuto dalla prima moglie faceva lo sforzo di venirli a trovare.
Dal pianterreno le giunse la voce di Jack: «Sto facendo un tè, amore. Ne vuoi anche tu?».
«Sì, grazie.»
Chamberlain non riusciva a capire alcuni colleghi che dimenticavano i vecchi casi, e a volte dovevano fare un grande sforzo di memoria per ricordare il nome di un violentatore, di un assassino, o quello delle loro vittime.
Per Chamberlain era diverso. Poteva dimenticare il numero di una scheda, il colore di un'automobile, ma le persone no. Quelle restavano con lei.
E sapeva che per Thorne era lo stesso. Una volta lui le aveva detto che le facce che non avrebbe mai dimenticato erano quelle che non aveva visto. Quelle degli assassini che non era riuscito a catturare. Le facce furbe che dovevano avere, contenti di essersela cavata.
Forse quelli che sostenevano di aver dimenticato, in realtà avevano sviluppato una tecnica per non ricordare. Un trucco del mestiere. Se era così, Chamberlain avrebbe fatto bene a frequentare di più quei colleghi. Magari in qualche ristorante indiano, o dentro un pub fumoso, le avrebbero rivelato il segreto.
Per motivi che non era pronta ad ammettere neppure con se stessa, non aveva voluto riaprire ufficialmente il caso di Jessica Clarke. Aveva preferito chiedere un favore a Thorne, e recarsi al Registro Generale, vicino a Victoria Station, a dare un'occhiata agli schedari mentre un vecchio amico faceva finta di non vedere. E appena aveva voltato la prima pagina, si era accorta di ricordare perfettamente Gordon Rooker. La fotografia sbiadita in bianco e nero era proprio come lei l'aveva tirata fuori da qualche luogo della memoria, la sera in cui aveva ricevuto la prima telefonata.
«L'ho bruciata io...»
Era quella la faccia che immaginava anche adesso, malgrado fossero trascorsi vent'anni. Dopo aver parlato con Thorne aveva cercato di dare a quell'immagine mentale rughe e capelli bianchi, ma senza successo.
Probabilmente era così che funzionava la memoria...
Un collega dell'Unità Riesame Casi Irrisolti, un uomo ormai sulla sessantina, aveva lavorato al caso degli omicidi dei Moors. Le aveva detto che quando pensava a Hindley e Brady vedeva ancora le facce che avevano nelle foto di allora, gli occhi infossati e il sorriso furbo. E non riusciva a immaginare il vecchio consunto e la placida matrona.
Carol Chamberlain ricordava il viso di Rooker. E quel ricordo preciso le sembrava confermare la convinzione che aveva della sua colpevolezza. Era un'assurdità, lo sapeva, eppure per lei aveva senso. La sua faccia era quella dell'uomo che vedeva inginocchiarsi accanto al recinto. La faccia dell'uomo che le sorrideva nella sala interrogatori era la stessa dell'uomo che vedeva fuggire giù dalla collina, euforico.
Si attaccò a quel ricordo in modo ancora più caparbio, dopo la telefonata di Thorne. Naturalmente aveva avuto dei dubbi, e sapeva che Thorne se n'era accorto. Il dubbio era nato di notte, e l'aveva spinta ad alzarsi a sedere sul letto. Poi si era fatto strada come un'erbaccia tra le pietre, mentre lei giaceva sveglia nel buio.
«L'ho bruciata io...»
Ora, finalmente, quel dubbio stava morendo. Aveva cominciato ad appassire nel momento in cui lei aveva preso il telefono e chiamato Thorne. Ora lui era andato a parlare con Rooker, e lo aveva sentito confessare, di nuovo...
Ma il sollievo non poteva essere completo, perché mentre ricordare il viso di Rooker era in qualche modo confortante, c'era anche quello di Jessica Clarke che chiedeva attenzione.
Chamberlain aveva visto le foto: un'adolescente con pelle bianca e capelli scuri lunghi fin sotto le spalle. E rivedeva le mani tremanti dei genitori che voltavano le pagine dell'album. Eppure la faccia della ragazza, i lineamenti perfetti che aveva prima,erano stati dimenticati con troppa facilità.
Chamberlain sentì i passi di Jack che saliva con il tè, e cercò di scacciare quelle immagini.
A fine giornata, Thorne salì sulla sua BMW con molto più entusiasmo di quando era andato a riprenderla dal meccanico. Uscì dal parcheggio e per i cinque minuti successivi guidò meccanicamente, concentrato soprattutto sulla scelta della musica. L'auto aveva un dispositivo automatico che permetteva di caricare fino a sei CD, e una volta alla settimana lui li cambiava, cercando sempre di fare una scelta equilibrata. Di solito metteva qualcosa dei primi anni del country,e qualcosa di più contemporaneo: in quel periodo di solito il primo e l'ultimo erano Hank Williams e Lyle Lovett. In mezzo c'erano un paio di compilation, o una colonna sonora, più qualcosa di alt country,una musica che stava imparando ad apprezzare: i Lambchop, probabilmente, o i Calexico. E non mancava mai un album di Johnny Cash.
Thorne rifletté sulle scelte a disposizione. Era importante mettere la musica giusta, perché il viaggio di mezz'ora fino a casa riuscisse a cambiargli l'umore. Aveva bisogno di qualcosa che gli permettesse di allentare la tensione.
Il problema era Tughan...
Alla fine si decise per Unchained. E quando, a circa mezzo chilometro da Hendon, la voce di Cash attaccò Sea of Heartbreak,Thorne cominciò a battere le mani sul volante a ritmo di musica. Si sentiva già molto meglio. Per quanto questo fosse possibile, data la situazione attuale.
Svoltò verso sud, tagliando la circolare nord e dirigendosi verso Golders Green.
Thorne si era scontrato con Nick Tughan quattro anni prima, su un caso a cui avevano lavorato insieme, e aveva ringraziato tutti gli dèi in cui non credeva quando le loro strade si erano finalmente separate. Thorne era rimasto a far parte della nuova squadra all'Unità per i Reati Gravi, mentre Tughan era finito all'SO7. E ora lavorava anche lui all'indagine in cui Thorne e i suoi erano stati chiamati a dare una mano. E la cosa peggiore era che nel frattempo era diventato ispettore capo.
Anche se non si erano visti per quattro anni, il loro rapporto era ripreso esattamente da dove lo avevano lasciato. Il loro incontro, nella sala di pronto intervento di Becke House, era stato emblematico: «Thorne...».
«Tughan...»
«Preferisco che tu ti rivolga a me chiamandomi "Signore".»
«Non andrebbe meglio "Coglione"?»
Se un funzionario di polizia avesse reagito fisicamente verso un altro funzionario di rango uguale o subordinato, per esempio tirandogli un pugno, le cose potevano mettersi male. Ma se quello stesso pugno l'avesse tirato a un superiore,quel funzionario si sarebbe trovato nella merda fino al collo. Thorne stava pensando all'ingiustizia di tutto questo, quando cominciò a squillare il cellulare.
Appena vide il nome sul display, Thorne fece un respiro profondo.
«Tom...?» Era zia Eileen, la sorella minore di suo padre. «Ascolta, non agitarti, ma...»
Thorne ascoltò, fermandosi poco più avanti su una corsia preferenziale. E continuò ad ascoltare, sordo alle imprecazioni e ai colpi di clacson che gli autisti degli autobus e dei taxi gli lanciavano passandogli accanto. Provò prima nausea, poi paura, e infine una incazzatura spaventosa.
Quando chiuse la comunicazione ripartì, invertì la marcia alla prima rotonda, e tornò nella direzione da cui era venuto.
La bruciatura saliva sul muro dietro i fornelli, e arrivava fino al soffitto. La carta da parati si era gonfiata ed era scoppiata in diversi punti, bruciando anche la colla e la vernice sulla parete. Le finestre della cucina erano aperte, ma la puzza era ancora disgustosa.
«Niente più padelle, in questa casa» disse Thorne. «E niente olio, cazzo.»
Thorne attribuì l'espressione scioccata della zia Eileen al proprio linguaggio. Poi si rese conto che non era così.
«Sarebbe meglio staccare direttamente il gas» disse Eileen. «Anzi, forse la cosa migliore sarebbe chiamare qualcuno e far portar via la stufa.»
«Ci penso io» disse Thorne.
«Posso organizzarmi da sola.»
«Non ce n'è bisogno, zia. Lo faccio io.»
Eileen alzò le spalle e sospirò. «Lui sa che non deve entrare in cucina.»
«Forse dovremmo mettere un lucchetto alla porta» disse Thorne, cominciando ad aprire e chiudere gli armadietti. «Probabilmente aveva fame...»
Eileen annuì. «Credo che abbia saltato il pranzo. Ha mandato via la donna dei pasti a domicilio, dicendole di ficcarsi le pentole su per quel culone grasso da vacca.» Cercò di restare seria, ma quando vide Thorne scoppiare a ridere rise anche lei.
«Chi ha chiamato i pompieri?» chiese Thorne, quando la tensione si fu allentata.
«Lui stesso. A un certo punto ha capito che il suono che sentiva era l'allarme antincendio, e ha premuto il bottone rosso. Ma sono certa che per un bel po' se n'è stato lì ad ascoltare la sirena senza sapere cosa fosse.»
Thorne guardò il soffitto. C'era una ragnatela di macchie fumose intorno alla lampadina. Sapeva fin troppo bene che molte mattine suo padre faceva fatica anche a ricordare a cosa servivano le scarpe.
«Prima o poi dovremo fare qualcosa, Tom.»
Thorne si voltò a guardarla. Per anni lei e suo padre non erano stati molto vicini. Poi, dopo la diagnosi di Alzheimer, due anni prima, lei si era fatta carico del fratello.
Gli aveva letteralmente organizzato la vita, e anche se abitava a Brighton, riusciva ad andare a trovare il vecchio a St Albans più spesso di Thorne, che stava a Londra.
Thorne si sentiva stanco e un po' euforico. Come sempre, la combinazione di gratitudine e senso di colpa lo metteva a terra.
«E come mai loro hanno chiamato te?» chiese.
«Tuo padre ha dato il mio numero a un pompiere, credo.»
Thorne sollevò le mani. «Sul foglio attaccato al muro ci sono tutti i miei numeri» disse. «Casa, lavoro e cellulare.»
«Lui riesce sempre a ricordare a memoria il mio numero, per qualche motivo.»
«E tu perché hai tardato tanto a chiamarmi? Sarei potuto arrivare prima di te.»
Eileen si avvicinò e gli toccò un braccio. «Lui non voleva farti preoccupare.»
«Sapeva che mi sarei infuriato, altroché.»
«Non voleva farti preoccupare. E neppure io. Quando mi hanno chiamata il principio d'incendio era già spento. Ho pensato di venire per prima, a riordinare un po'.»
Thorne cercò più volte di chiudere un armadietto, ma lo sportello era imbarcato e continuava a riaprirsi. Lo sbatté, ma fu inutile.
«Grazie, Eileen» disse alla fine.
«Dovremmo parlarne, Tom» disse lei. «Dovremmo almeno considerare le opzioni.» Indicò la stufa. «Stavolta siamo stati fortunati, ma ora devi cominciare a pensare alla possibilità di mettere tuo padre da qualche parte. Potremmo far valutare la casa...»
«No.»
«Mi preoccupa l'idea che possa uscire di casa e perdersi. Potremmo almeno mettergli una di quelle medagliette di cui ho sentito alla radio. Così se dovesse dimenticare dove si trova...»
«Quella di cui hai sentito parlare alla radio è un'iniziativa contro la delinquenza giovanile, Eileen. Le medagliette le mettono ai rapinatori da strada.» Thorne uscì dalla cucina e si vide riflesso per un attimo nello specchio del corridoio, prima di entrare in soggiorno.
Suo padre, Jim Thorne, era seduto su una vecchia poltrona, chino su un tavolino pieno di pezzi di radio che aveva smontato e non riusciva più a rimontare. Parlò senza alzare lo sguardo.
«Avevo voglia di patatine fritte» disse, con la sua voce un po' acuta.
«C'è un'ottima rosticceria in fondo alla strada, papà...»
«Non è la stessa cosa.»
«Ma ti sono sempre piaciute le patatine di quel negozio!»
«Volevo friggerle io.»Jim Thorne sollevò la testa e fece un gesto rabbioso con un pezzo di plastica in mano. «Volevo farmi delle patate fritte da solo, va bene?»
Thorne si morse la lingua. Attraversò il soggiorno e si lasciò cadere sulla poltrona accanto al caminetto.
Si chiedeva se questo fosse il punto in cui la malattia passa dallo stato "medio" all'"ultimo stadio". Forse non era una cosa definibile clinicamente. Forse il momento era marcato dalla prima volta che una persona con l'Alzheimer rischiava di uccidersi...
«Stronzate» disse suo padre, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Fino a quel momento era stata una lotta difficile, ma ce l'avevano fatta. Tutti i problemi pratici riguardanti chiavi, posta e soldi erano stati in qualche modo risolti. Inoltre avevano dovuto affrontare il disorientamento rispetto a tempo e luogo, la totale incapacità di capire cosa indossare e quando, le medicine per la depressione, per gli sbalzi di umore, per i comportamenti aggressivi. Eppure suo padre non era ancora caduto in un fosso. Non aveva iniziato a bere varechina pensando che fosse limonata. Non aveva mai fatto nulla di pericoloso. Fino a quel momento...
«Sai che non devi mettere piede in cucina» disse Thorne. Allora arrivarono le parole che il vecchio ripeteva sempre più spesso, il suo "ritornello", come lo chiamava quando era di buon umore. Parole urlate, singhiozzate, ma soprattutto mormorate a denti stretti: «L'ho dimenticato».
«Lo so. E hai dimenticato anche di spegnere il gas. Queste regole hanno un motivo, lo sai. Che succede se un giorno dimentichi che i coltelli tagliano? O che il tostapane non va riempito d'acqua?»
Suo padre alzò gli occhi di scatto, eccitato per un pensiero improvviso. «Muoiono più persone per incidenti casalinghi che per qualunque altra causa» disse. «Quasi cinquemila all'anno. L'ho letto da qualche parte. Più nel soggiorno che in cucina, di fatto, una cosa che mi ha sorpreso.»
«Papà...» Thorne vide la concentrazione sul viso del padre, e cominciò a contarsi le dita.
«In cima alla lista ci sono le cadute, se non ricordo male. "Incidenti da impatto", li chiamano. Poi le scosse elettriche. Il fuoco, ovviamente. Soffocamento, incidenti dovuti al fai da te...»
«Perché non hai dato ai pompieri il mio numero?»
Suo padre continuò la lista di cause di incidenti, ma quasi mentalmente, formando appena le parole con le labbra. Dopo circa mezzo minuto smise e tornò a frugare tra i circuiti e i pezzi di plastica sparsi sul tavolino.
Thorne rimase a osservarlo per un po'. «Resterò qui, stanotte» disse.
Il vecchio sorrise e si alzò in piedi. Mise una mano in tasca e tirò fuori una banconota spiegazzata da cinque sterline. «Ecco. Prendi questi...» chiuse gli occhi, sforzandosi di ricordare la parola giusta. «Questa cosa con cui la gente compra delle altre cose.»
«Perché dovrei prendere questi soldi?»
«Soldi!»
«Cosa dovrei farci?»
«Vai in fondo alla strada e compra patatine fritte per tutti e due. Non ho ancora cenato, cazzo...»
Era steso nel buio, e pensava alla ragazza che bruciava.
Non aveva mai smesso realmente di pensarci, per un motivo o per l'altro. Almeno, non per molto tempo. Ma ultimamente, per ovvie ragioni, ci pensava più spesso. I colori e gli odori, che erano un po' sbiaditi con gli anni, erano tornati vividi. Eppure lui aveva avuto solo un paio di secondi per apprezzare la scena, all'epoca. Una volta che il fuoco ebbe fatto presa, lui aveva dovuto correre in fretta giù dalla collina, fino al punto in cui aveva lasciato la macchina. Era corso via quasi con la stessa velocità della ragazza.
Il resto lo aveva saputo dai giornali. Aveva visto il volto della ragazza, tutto fasciato, sulle prime pagine di tutti i giornali e nei notiziari televisivi. Poi aveva visto anche le foto senza bende. Era impossibile dire come era la sua faccia prima.
Che ironia. Se lui l'avesse vista in faccia, quel giorno al campo giochi, avrebbe subito capito che non era lei il suo obiettivo. Dopo, ovviamente, nessuno l'avrebbe mai più scambiata per un'altra.
Cominciò ad addormentarsi. I pensieri diventarono immagini confuse, sensazioni...
La rivide agitare le braccia, prima di mettersi a correre, come se il disturbo che sentiva fosse una sciocchezza, una puntura di vespa o qualcosa del genere. Ricordò il rumore precipitoso della sua corsa. Ricordò come si era sentito stupido, quando si era reso conto di aver sbagliato ragazza.
Thorne passò la maggior parte della notte rivoltandosi tra le lenzuola, affondando nel materasso troppo soffice della stanza degli ospiti, e tirando su il piumino che continuava a cadere perché il letto pendeva di lato. Gli sembrava di essersi appena addormentato quando suonò il cellulare. Guardò l'orologio e scoprì che erano già le nove e mezza. Provò un istante di panico, ma ricordò di aver chiamato Brigstocke la sera prima, per spiegargli la situazione e avvisare che il giorno dopo non sarebbe andato in ufficio.
Allungò una mano verso il telefonino, che suonava sul pavimento, in cima alla pila dei suoi vestiti. Aveva il collo e un braccio gelati.
Era Holland. «Mi trovo in un video shop di Wood Green, capo» disse. «Abbiamo due cadaveri ancora caldi. E non è il titolo di un video...»
CAPITOLO 4
L'agente in uniforme che era arrivato per primo era seduto a un tavolo in una stanza sul retro, vicino a un ragazzo che doveva essere il figlio di Muslum Izzigil. Thorne non avrebbe saputo dire quale dei due sembrava più giovane. O più sconvolto.
Holland era al suo fianco. «Il ragazzo è corso in strada non appena li ha trovati. L'agente Terry stava facendo colazione nella caffetteria di fronte, e l'ha sentito urlare.»
Thorne annuì e chiuse piano la porta. Intorno ai cadaveri era stata delimitata in fretta una zona di sicurezza. La scientifica si muoveva con molta efficienza, ma, sembrava, senza il solito umorismo macabro. Thorne aveva dato la caccia a dei serial killer, aveva visto scene di delitti dove si respirava un'atmosfera di rispetto, quasi di paura, ogni volta che appariva un'altra vittima. Quello era un caso molto diverso. Si trattava quasi certamente di un omicidio su ordinazione. Eppure, c'era quella stessa atmosfera strana, nel negozio. Forse dipendeva dal fatto che i cadaveri erano due. Che erano marito e moglie.
«Dov'era il ragazzo al momento del fatto?»
«Di sopra» rispose Holland. «Si stava preparando per andare a scuola. Non ha sentito nulla.»
Thorne annuì. L'assassino aveva usato un silenziatore. «Questo è meno appariscente del nostro X-Man» disse.
Muslum Izzigil era seduto contro il muro, tra uno scaffale di video per bambini e una sagoma di cartone di Lara Croft. La testa pendeva di lato, gli occhi erano quasi fuori dalle orbite. Un sottile filo di sangue gli correva da dietro la testa lungo le guance rasate di fresco, fino al colletto della camicia di nylon. Il cadavere della moglie era di traverso sulle sue gambe, a faccia in giù. C'era pochissimo sangue, e soltanto un buco dietro l'orecchio rivelava l'accaduto. O almeno, ne rivelava una parte...
Quale dei due era stato ucciso per primo? Il marito era stato costretto ad assistere all'esecuzione della moglie? La moglie era morta perché aveva cercato di salvare il marito?
Thorne alzò lo sguardo e notò la piccola telecamera in un angolo del negozio. «Questo sarebbe sperare troppo, dico bene?»
«Già» rispose Holland. «La telecamera è in piena vista, e il videoregistratore è sotto il bancone. L'assassino l'ha trovato senza difficoltà e si è portato via il nastro.»
«Una cosa da far vedere ai nipotini...»
Holland si inginocchiò e indicò con una biro il collo della donna. «Una ventidue, direi.»
Thorne vide prima il sangue, che le circondava il collo come una collana, per raccogliersi in una macchia appiccicosa tra il mento e la moquette grigia. Poi guardò il foro. «Direi anch'io.»
Si diresse verso la stanza sul retro, per una conversazione difficile.
L'agente Terry scattò in piedi non appena lo vide entrare. Thorne gli fece cenno di tornare a sedersi. «Qual è il nome del ragazzo?»
Fu il ragazzo a rispondere: «Yusuf Izzigil».
Thorne gli dava circa diciassette anni. Probabilmente un tipo studioso. I capelli corti e neri erano acconciati in una serie di punte sopra la testa e si vedeva che stava facendo di tutto per convincere i baffi a crescere. L'isteria e le grida menzionate da Holland avevano ceduto il posto a una strana immobilità. Il ragazzo era tranquillo e composto, ma le lacrime continuavano a spuntargli negli occhi, mentre lui cercava di asciugarle con il dorso della mano.
Senza che nessuno gliel'avesse chiesto, cominciò a raccontare tutto. «Stavo vestendomi, di sopra. Mio padre è sceso verso le otto, come sempre, per mettere a posto le cassette restituite durante la notte. E quando mia madre ha finito di riordinare in cucina è scesa in negozio a dargli una mano.»
Parlava con notevole proprietà, e senza traccia di accento. Thorne si rese conto in quel momento che la felpa marrone e i pantaloni grigi erano una divisa, e immaginò che il ragazzo frequentasse una scuola privata.
«Quindi tu non hai udito nulla?» chiese. «Nessuno ha alzato la voce?»
Yusuf scosse la testa. «Ho sentito solo il campanello quando qualcuno ha aperto la porta.»
«E non ti è sembrato strano? Era piuttosto presto.»
«Spesso qualche cliente passa prima di andare al lavoro, per prendere un film che qualcun altro ha restituito durante la notte.»
«Hai notato qualcos'altro?»
«Dopo sono andato in bagno. Il rumore dell'acqua ha coperto tutto. Altrimenti sono certo che avrei udito qualcosa.»
Portò la mano al viso, ad asciugare una lacrima. «Le pistole avevano il silenziatore, vero?»
Era strano che dicesse una cosa del genere. Thorne si chiese subito se sapesse più di quanto diceva. Poi decise che era solo l'influenza dei film di gangster di cui il negozio era pieno.
«Le pistole? Cosa ti fa pensare che fossero più di uno, Yusuf?»
«Una settimana fa sono venuti due ragazzi. Più o meno della mia età, ha detto mio padre. E hanno cercato di spaventarlo.»
«Cosa hanno fatto?»
«Roba patetica. Minacce, merda di cane nel fodero di una videocassetta. Hanno anche tirato un bidone della spazzatura contro la vetrina, quando sono usciti.» Indicò verso la porta, dove era stata tesa una spessa tenda nera, per nascondere le attività della polizia agli occhi dei passanti. «Prima c'era stata una lettera. Mio padre l'aveva ignorata.»
«Ma l'ha conservata, che tu sappia?»
«Mia madre deve averla messa da qualche parte. Non getta mai via nulla.»
Si rese conto di aver parlato al presente, e sbatté le ciglia. Stavolta la mano ci mise più tempo ad asciugare gli occhi. Thorne ricordò il cartello davanti alla cassa. Una telecamera ti sta riprendendo. «Tuo padre ha registrato quello che è successo con quei due ragazzi?»
«Immagino di sì. Registrava tutto ciò che accadeva in negozio. Ma probabilmente non troverete nulla.»
Thorne gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Usava sempre gli stessi nastri» disse Yusuf. «Ne cambiava cinque o sei tutti i giorni, e poi ci registrava di nuovo sopra. Cercava di risparmiare, ma risparmiare sulle cassette era stupido, considerato che le vendevamo noi,e non doveva comprarle. Il risparmio, sempre il risparmio...»
Il ragazzo chinò la testa e stavolta non cercò di frenare le lacrime.
«Non sei un bambino, Yusuf,» disse Thorne «e sei troppo intelligente per credere a false rassicurazioni, perciò non te ne darò. Qui non si tratta di una lite, o di un'amante, o di una fattura non pagata. Non ti dirò che prenderemo l'assassino, perché non posso esserne certo. Quello che posso dirti, però, è che ci proverò con tutte le mie forze.»
Attese una reazione, ma il ragazzo non alzò gli occhi. Thorne fece un cenno del capo a Terry, che si alzò e mise un braccio intorno alle spalle di Yusuf. Thorne uscì e chiuse la porta, mentre l'agente mormorava qualche parola di conforto.
Rientrando nel negozio, vide una mano che spostava di lato la tenda nera, e un attimo dopo entrò Nick Tughan, con un'aria da attore di quart'ordine.
«Allora, cosa abbiamo?» Tughan era un irlandese magro come un chiodo e dalle labbra sottili. I suoi capelli color sabbia erano sempre puliti e in ordine, e i colletti sempre bianchi sotto una varietà di giacche costose. «Chi mi fa un rapporto?»
Thorne sorrise e scrollò le spalle. "Se aspetti che te lo faccia io, coglione, stai fresco." Holland si fece avanti, sapendo di essersi guadagnato una bevuta. Thorne pensò che una pinta di birra, più tardi, ci sarebbe stata bene, malgrado fossero solo le undici del mattino. Nel negozio c'erano una dozzina di persone, compresi i cadaveri. Questo, con l'aggiunta del calore proveniente dalle luci, aveva trasformato il locale in una sauna. Thorne si diresse verso la porta, in cerca di un po' d'aria fresca, ma in quel momento un'altra persona apparve da dietro la tenda. Hendricks, vestito di nero da capo a piedi.
«Che cosa ti è successo ieri sera?» chiese, appena lo vide.
Thorne sospirò. Aveva dimenticato di chiamarlo per dirgli che si fermava a dormire da suo padre. «Te lo spiego dopo...»
«Tutto bene?»
«Sì... Si tratta di mio padre.»
«Sta bene?»
«È una spina nel fianco...»
«Sono stato alzato ad aspettarti. Avresti almeno potuto chiamarmi.»
«Oh, che bella scenetta» li interruppe la voce di Tughan. L'ispettore capo era accanto ai cadaveri di Muslum e Hanya Izzigil, con un sorriso canzonatorio sulle labbra. «No, sul serio, è commovente, come si preoccupa per te.»
Dieci minuti dopo, Thorne stava ancora vomitando imprecazioni sul marciapiede, quando Holland lo raggiunse.
«Direi che abbiamo un forte incentivo per risolvere questo caso» disse.
«Già. Toglierci dalle grinfie di quello stronzo figlio di puttana.»
«Comunque su una cosa aveva ragione, capo. Era davvero commovente.»
Thorne si voltò, pronto a sfogarsi su di lui, ma il largo sorriso sul viso di Holland gli fece bene. Lasciò andare il fiato e si appoggiò contro la vetrina. «Hai un aspetto stanco, Dave...»
L'agente speciale Dave Holland era cresciuto parecchio sotto gli occhi di Thorne, negli ultimi anni. Recentemente si era tagliato i capelli biondi e ondulati un po' più corti, e questo, insieme alle rughe che gli erano apparse intorno agli occhi, lo faceva sembrare più adulto. Thorne sapeva che pochissimi poliziotti conservavano a lungo un viso fresco. Quelli che ci riuscivano erano fortunati o pigri, e nessuna di queste due definizioni si applicava a Holland. L'anno prima gli aveva salvato la vita, ma non ne avevano parlato quasi mai, soprattutto a causa dell'atmosfera di depravazione in cui il fatto era avvenuto.
«Sono completamente distrutto» disse Holland.
Thorne osservò la barba bionda che gli spuntava sulle guance scavate. Forse il cambiamento avvenuto nel giovane era dovuto alle responsabilità, oltre che all'esperienza. Tempo prima, e soprattutto durante la gravidanza della sua ragazza, Holland non aveva mostrato un gran senso di responsabilità.
«È la bambina?»
«No, è Sophie» rispose Holland. «Vuole fare sesso tre o quattro volte per notte, tutte le notti.»
«Cosa?»
«È ovvio che si tratta della bambina» disse Holland. «Si è fatto mettere un bypass per il senso dell'humour?»
«Anch'io ho dormito poco. Ho passato la notte a casa di mio padre.»
«Ah, l'avevo dimenticato. Come sta?»
«Penso che prima di riuscire a uccidersi riuscirà a far morire me.»
Dalla parte opposta della strada, una piccola folla si era raccolta per osservare quello che accadeva nel video shop. Il bar da cui l'agente Terry era uscito udendo le grida del ragazzo, era diventato un perfetto punto di osservazione. Il padrone andava in giro a servire caffè e paste ai curiosi sul marciapiede.
Holland tirò fuori un pacchetto da dieci di Silk Cut, e si fece dare da accendere da una donna che spingeva un passeggino.
«Da quando hai cominciato?» chiese Thorne, indicando la sigaretta. Lui non fumava più da molto tempo, ma era ancora disposto a uccidere per una sigaretta.
«Da quando è nata la bambina. Dovevo scegliere: sigarette o eroina.»
«Bene, se avessi scelto l'eroina, ora saresti nel posto giusto.»
A nord di Finsbury Park, Green Lanes si raddrizzava, diventando la zona nota come Harringay Ladder, una delle più trafficate e più etnicamente diverse della città. Naturalmente questo non bastava a spiegare la presenza di poliziotti armati lungo le strade. Una feroce sparatoria lungo quelle strade, sei mesi prima, aveva lasciato tre morti, e mostrato a tutta la città l'altra faccia di quella zona. Harringay era il quartier generale di parecchie gang che operavano all'internp della comunità turca. Secondo il National Criminal Intelligence Service, controllavano più di tre quarti delle sette tonnellate di eroina che passavano ogni anno per Londra. E proteggevano con tutte le forze i loro investimenti.
«Tughan pensa che sia una storia di ero?»
Holland non lo ascoltava. «Come dice...?»
Thorne indicò il negozio alle loro spalle. «Gli Izzigil. Il nostro esperto là dentro pensa che si tratti di una guerra di territorio?»
«No, pensa che si tratti dei Ryan.»
«Eh?»
«È convinto che l'omicidio sia un messaggio da parte di Billy Ryan a quelli che stanno ammazzando i suoi ragazzi. Una "dichiarazione", l'ha definita.»
«È un bel volo d'immaginazione, no?» disse Thorne. «Su che basi lo dice?»
«Non ne ho idea. Ma sembra molto convinto.»
Thorne chiuse gli occhi mentre il vento gli spingeva il fumo della sigaretta di Holland contro la faccia. «A un certo livello ha senso» disse.
«Cosa?»
«È logico che i Ryan abbiano capito prima di noi chi sono i loro avversari.»
Thorne vide due agenti con i sacchi contenenti i cadaveri dirigersi verso la porta del negozio. Evidentemente Hendricks aveva terminato l'esame preliminare. Rientrando, Thorne mormorò: «Ascolta, Dave. Il fatto che Hendricks sta a casa mia... Circolano battute al riguardo?».
Holland stava aspirando una boccata. Rise tanto che iniziò a tossire.
Thorne aveva trascorso gli ultimi tre anni di stanza al Peel Centre di Hendon, e la sua familiarità con il posto, e con Becke House in particolare, lo portava a disprezzarlo. L'edificio, una macchia grigia a tre piani su un paesaggio già brutto, una volta aveva ospitato un dormitorio per le reclute. I letti avevano ceduto il posto a sale di pronto intervento e suite di uffici, ma c'erano ancora parecchie facce giovani in giro, perché i cadetti della Polizia Metropolitana si erano trasferiti in un edificio poco lontano.
A Thorne era sempre sembrato strano che l'Unità per i Reati Gravi si trovasse accanto a un centro di addestramento per reclute. Ricordava di essere arrivato un pomeriggio sul tardi, l'anno prima, e di aver urtato un cadetto in uniforme nel parcheggio. Aveva appena finito di dire a una donna anziana che sua figlia e i suoi nipotini erano stati uccisi a colpi di ascia dal marito di lei. Lo sguardo che aveva rivolto al cadetto che stava scusandosi aveva fatto ammutolire di botto il ragazzo.
La riunione si teneva nell'ufficio che Russell Brigstocke divideva senza alcun piacere con Nick Tughan. L'SO7 Projects Team aveva la propria base operativa in una serie di prefabbricati a Barkingside, dove Tughan e la sua squadra passavano gran parte del loro tempo. Ma da quando era iniziata quell'operazione congiunta, al terzo piano di Becke House c'era stata una piccola rivoluzione. Holland e l'agente speciale Stone dividevano il loro ufficio part-time con agenti dell'SO7, lasciando il terzo ufficio a Thorne e all'ispettore Yvonne Kitson, la quale passava la maggior parte del suo tempo a raccogliere informazioni nella sala di pronto intervento, insieme con Samir Karim, il sergente che coordinava quell'ufficio. Perciò spesso Thorne era l'unico ad avere un ufficio tutto per sé.
«Bene» esordì Tughan. «I giochi sono cominciati. Penso che ci troviamo nel bel mezzo di una guerra di bande.»
Il suo accento irlandese poteva essere sciropposo oppure stridente. Quel giorno ricordava a Thorne lo stridio della sedia di Rooker quando si era alzato dopo il loro colloquio nel parlatorio della prigione.
Tughan si appoggiò alla scrivania, nel vano tentativo di far sembrare casuale il suo atteggiamento superiore. Sollevò una busta trasparente con dentro un pezzo di carta. «Questa è stata trovata tra le carte del morto. Ci sono delle fotocopie per tutti.»
Brigstocke e Kitson avevano già le loro. Holland, Stone e Thorne presero un foglio ciascuno da sopra la scrivania.
«La lettera non ha data,» continuò Tughan «ma secondo il figlio è stata consegnata a mano circa sei settimane fa.»
«Un regalo di Natale in ritardo» disse Stone, sperando di provocare una risata. Era sempre un po' troppo pieno di sé.
Tughan lo ignorò. «È più sottile delle altre che ho visto nella mia vita. Parla molto dei pericoli a cui sono soggette le attività in proprio, ma di fatto è un avviso di protezione. Il problema è che loro stavano cercando di estorcere denaro a qualcuno che era già protetto.»
«Quando dice "loro", intende Billy Ryan?»
«A quanto ne so, si tratta di lui.»
«A quanto ne sa?»
Tughan fece un sorriso sprezzante e si voltò dall'altra parte. «Ci stiamo muovendo a partire dalla supposizione che questa lettera abbia avuto origine dalla famiglia Ryan o da qualche loro associato.»
Thorne non era convinto. Non era tanto il fatto che quell'avviso di protezione fosse scritto su carta intestata. Ma come faceva Tughan a essere così sicuro che provenisse dalla famiglia Ryan?
Incrociò lo sguardo di Brigstocke, ma l'ispettore capo distolse subito gli occhi. L'atteggiamento di Brigstocke, rispetto a quell'operazione, era di starsene a testa bassa finché gli uomini del Projects Team se ne fossero andati.
Thorne lo stimava molto. Era un uomo di saldi principi, troppo spesso bloccato tra sottoposti e superiori. Tuttavia aveva una irritante predilezione per tergiversare, senza scommettere sulle proprie idee.
Allo stesso tempo, Thorne era ben consapevole che la propria tendenza a rischiare lo aveva troppe volte messo nei guai.
Yvonne Kitson fu l'unica a dire quello che pensava: «Non ha molto senso» disse. «Mandano una lettera di minaccia, seguita dalla visita dei due ragazzi che gettano un bidone della spazzatura contro la vetrina, e poi fanno uccidere i proprietari del negozio?»
Holland sollevò gli occhi dalla lettera. «È vero. Sembra un'escalation troppo rapida, signore.»
«Non è complicato» disse Tughan, con un sorriso di sufficienza. «Si è trattato di una campagna di intimidazione, che nelle intenzioni non doveva arrivare all'omicidio. Poi i Ryan hanno scoperto che il video shop era protetto dalle stesse persone che avevano fatto uccidere Mickey Clayton e gli altri. Dai mandanti degli omicidi di X-Man.»
«Una bella coincidenza» disse Holland.
Era quello che Tughan aspettava. «Non credo proprio che si tratti di...»
«La lettera» disse Thorne. «È da lì che è cominciato tutto.»
«Probabilmente è stata la lettera» concesse Tughan, senza nascondere l'irritazione per essersi fatto rubare la sua rivelazione. «Comunque adesso non importa come sia iniziata la guerra...»
«Quelli che proteggevano Izzigil,» disse Thorne «si sono offesi vedendo il tentativo dei Ryan di subentrare al loro posto.»
«"Offesi" non rende l'idea» disse Holland. «Hanno fatto uccidere quattro membri di primo piano della banda di Ryan.»
«Una volta non ci si limitava a spezzare le gambe?» intervenne Brigstocke.
«Ormai non è più solo una guerra di territorio» disse Thorne. «Possiamo presumere che siano turchi, giusto? Perciò quelli che stanno prendendo di mira i Ryan...»
«Non possiamo presumere nulla» disse Tughan. «Il fatto che il proprietario del negozio fosse turco non prova nulla.»
«Non è una prova» ribatté Thorne. «Su questo sono d'accordo. Ma potrebbe comunque essere significativo.»
«Il National Criminal Intelligence Service non ci ha detto nulla al riguardo.»
«Neppure loro sono infallibili. Probabilmente si tratta di gente nuova. Forse una filiazione di una gang già esistente.»
«È vero, la zona è prevalentemente turca, ma possono esserci altri gruppi interessati a tentare la sorte lì.»
«Se ci sono, si tratta di idioti.»
«I Ryan ci hanno provato, no?»
«Infatti» convenne Thorne. «E cosa ci hanno guadagnato?»
Tughan sembrò decidere all'improvviso che era meglio mettere una barriera fisica tra sé e Thorne, e andò a sedersi dietro la scrivania. Fissò il computer, come immerso in profondi pensieri. Probabilmente stava cercando il modo migliore di riprendere il controllo della discussione.
«Stiamo presumendo che da una parte ci siano i Ryan, giusto?» continuò Thorne prima che Tughan avesse la possibilità di riprendere la parola. «Se presumiamo anche che dall'altra parte ci sia una gang turca, per il momento sconosciuta, i conti cominciano a tornare. Una nuova banda in cerca di un territorio non si metterebbe contro le grosse bande turche che hanno già il controllo della zona. Non durerebbe neppure sei mesi. Appena provi ad avvicinarti a una di quelle organizzazioni che controllano il traffico di eroina, ti spazzano via senza pensarci due volte. Giusto?»
Se qualcuno non era d'accordo, non lo disse.
«Ora, se vuoi fare colpo, la cosa più sensata da fare è andare contro qualcuno che non è affatto collegato con il territorio locale. Quando a Izzigil è stata consegnata quella lettera, qualcuno ha visto un'opportunità di espandersi in una direzione nuova, di mandare un messaggio alle gang della zona senza provocare nessuno. Questa gente, di chiunque si tratti, vede i Ryan come un bersaglio facile.»
Tughan stava battendo sulla tastiera. Sollevò lo sguardo. «Qualcuno dovrebbe andare a dirlo a Billy Ryan.»
«E agli Izzigil» disse Yvonne Kitson senza sorridere.
Tughan premette un ultimo tasto e si fece indietro sulla sedia. «Credo che l'ispettore Thorne abbia ragione a suggerire che si tratti di un gruppo turco, o forse curdo. Sono in contatto con l'Unità Informazioni sul Traffico di Eroina del NCIS, e...»
Thorne scosse la testa. «Io però non credo che si possa trattare di eroina. Nessuno caca sulla porta di casa sua.»
«Questa è un'espressione tecnica?» chiese Brigstocke. «Devo essermi perso il seminario dove l'hanno insegnata.»
Thorne sorrise. «Ho visto un paio di film di Guy Ritchie.»
Tughan alzò leggermente la voce, irritato come sempre da ogni scambio di battute che non fosse funereo. «Sono certo che riusciremo rapidamente a identificare questa gang. Troveremo qualcosa che li colleghi alla faccenda del video shop, oppure saranno i leader della comunità turca della zona a darci un indizio...»
«Quelli che desiderano suicidarsi parleranno certamente con noi» disse Brigstocke.
«In un modo o nell'altro, ora le cose sono molto più chiare di prima.» Tughan sollevò la lettera che probabilmente era stata il catalizzatore di almeno sei omicidi. «Oggi abbiamo fatto un grande passo avanti.»
L'umore di Thorne si fece nero all'istante, ricordando le lacrime di Yusuf Izzigil.
Un grande passo avanti...
Dubitava che il ragazzo avrebbe considerato le cose nello stesso modo.
Di ritorno dal ristorante, nell'auto regnava un completo silenzio.
Jack rispettava i limiti di velocità, come sempre, conducendo la Volvo sulle strade scivolose a causa della pioggia serale. Quello era un rituale che cercavano di ripetere almeno una volta al mese, oltre ai compleanni e agli anniversari. Guidava sempre Jack, e si limitava sempre a bere mezza pinta di birra aspettando il cibo, e un bicchiere di vino durante il pasto.
«Ce l'hai con me?» disse Carol, a un certo punto.
«Non essere sciocca. Ero solo preoccupato.»
«Mi sembra di averti rovinato la serata.»
«Non potevi evitarlo. Quello che è successo, intendo dire. Non mi hai affatto rovinato la serata.»
Carol si voltò a guardare fuori dal finestrino. Sentiva ancora il sapore di vomito in gola. Controllò di non essersi sporcata la blusa.
«Probabilmente ti stai ammalando» disse Jack. «Appena arriviamo a casa chiamo il dottore.»
Carol annuì senza voltarsi, continuando a fissare il buio fuori dal finestrino.
Era successo mentre mangiava gli spaghetti. Un calore improvviso, forte, che a un tratto l'aveva costretta a gettare sul tavolo la forchetta e a correre in bagno. Ne era emersa dieci minuti dopo, con un sorriso debole che non aveva ingannato nessuno. Né il manager, che si era offerto di chiamare un medico e non aveva voluto che pagassero la cena, né suo marito. Jack si era alzato subito e l'aveva presa sottobraccio: «Andiamo via, amore, sei bianca come un lenzuolo».
Carol sapeva benissimo qual era il problema. Quello era il primo sintomo fisico di un virus che aspettava da tempo la possibilità di uscire allo scoperto, fin dal giorno in cui lei aveva restituito il tesserino. Aveva cercato di ignorarlo, in passato, ma sapeva che c'era.
Ho mai smesso di essere una poliziotta, dentro?
Conosceva perfettamente la risposta. Il lavoro sui casi insoluti era roba da bambini. Era come giocare al poliziotto, mentre prima era il suo lavoro. Ora provava dubbi, preoccupazione, dolore, rabbia. E paura. Sentiva tutte quelle emozioni in un modo diverso da quando lavorava. Le sentiva da civile. E le dava un fastidio terribile.
Sapeva che il problema era Gordon Rooker. Il sollievo dopo la telefonata di Thorne era durato meno di due ore. Era una cosa così stupida. Dopotutto, i fatti erano chiari: Rooker era colpevole, ed era in galera. La persona che le telefonava e le inviava quelle lettere doveva essere un pazzo. E comunque ora sembrava che avesse smesso.
Ma non erano stati i fatti, a farla vomitare. Erano state le emozioni. Il panico. Doveva assolutamente riprendere a comportarsi come una vera poliziotta.
«Non può essere il cibo» disse Jack, rallentando per svoltare nella traversa dove abitavano. «Quante volte abbiamo mangiato lì, negli ultimi anni?»
Hendricks dormiva già quando Thorne rientrò, appena dopo le undici. Mentre passava in punta di piedi accanto al divano letto, diretto in cucina, Elvis, la sua gatta psicotica, balzò giù e lo seguì. Mentre Thorne aspettava che bollisse l'acqua, versò dei croccantini in una scodella di plastica e raccontò alla gatta come era stata la sua giornata. Avrebbe preferito raccontarlo a Hendricks, ma il sonoro russare che proveniva dal soggiorno era un chiaro segnale che Hendricks era fuori gioco, e Thorne non voleva svegliarlo. Sapeva che anche l'amico doveva aver avuto una giornata abbastanza dura.
Immerso fino ai gomiti nei cadaveri di Muslum e Hanya Izzigil.
Mentre beveva il tè seduto al tavolo della cucina, Thorne pensò a tutte le persone che quella notte non avrebbero dormito. Quelli che avevano preoccupazioni economiche, problemi di lavoro, difficoltà coniugali. Erano infinite le cause che potevano tenere sveglia la gente. Invece un uomo che si occupava di morti violente poteva dormire come un neonato.
Be', forse quella non era l'espressione giusta, come avrebbe potuto dirgli Dave Holland.
E comunque, lui non sapeva nulla dei sogni di Phil Hendricks...
Thorne non riusciva più a dormire bene da quella notte dell'anno prima quando era stato così vicino alla morte. C'erano stati degli incubi, naturalmente, ma ora il motivo non era più quello. Sembrava che il suo corpo si fosse adattato e richiedesse meno sonno. Spesso gli bastavano quattro o cinque ore, salvo poi recuperare con dormite lunghissime durante il suo giorno libero.
Si tolse le scarpe, le prese in mano e si diresse verso la stanza da letto, con la tazza di tè nell'altra mano. Passando dal soggiorno prese anche il suo lettore CD portatile e un disco di George Jones. Tenne la porta aperta per far entrare Elvis, ma la gatta saltò di nuovo sul divano, ai piedi di Hendricks.
«Fa' come ti pare» disse Thorne.
Entrò in camera da letto con il tè, le scarpe e la musica, e chiuse la porta.
Fu una specie di variazione improvvisa della luce.
Carol Chamberlain la vide riflessa nello specchio del tavolino da trucco mentre si toglieva il fondotinta che restava dopo essersi lavata il viso con l'acqua fredda, nel ristorante italiano dove aveva avuto l'attacco di vomito.
Jack si muoveva di sotto. Chiudeva la porta, controllava le finestre, scollegava gli apparecchi elettrici... In breve, si preoccupava della sicurezza di entrambi.
Carol fissò la propria immagine nello specchio. Era arrivato il momento di tagliarsi i capelli, e magari di perdere qualche chilo, recuperando quello che Jack chiamava il suo "peso da combattimento". Anche se ormai, a cinquantasei anni compiuti, scendere di peso non era più tanto facile.
Chinandosi verso lo specchio con le dita sporche di crema, Carol vide cambiare la luce. Un bagliore prima rosato, poi arancione, che strisciò attraverso un'apertura tra le tende e illuminò la stanza alle sue spalle. Carol aprì la bocca per chiamare Jack, poi ci ripensò e scattò in piedi. Avvicinandosi alla finestra vide il bagliore che saliva verso i rami del faggio in fondo al vialetto. Sapeva già quello che avrebbe visto, quando guardò fuori. E si chiedeva se lui sarebbe stato lì, anzi, lo sperava...
Lui c'era, e guardava verso di lei. Era in piedi accanto all'auto, con la lattina di combustibile nella mano guantata.
La stava aspettando.
Si fissarono per alcuni lunghi secondi. Le fiamme non erano spettacolari, e la luce illuminava bene solo la giacca a vento scura dell'uomo, senza arrivare a disperdere le tenebre che gli avvolgevano la testa coperta dal cappuccio della giacca a vento.
Le fiamme lambivano già il cofano della Volvo. Si spostarono lungo i bordi, poi in basso, dove il carburante era colato giù. Ma le parole in lettere di fuoco erano ancora abbastanza chiare.
L'ho bruciata io.
Carol udì scattare la serratura della porta d'ingresso, al piano di sotto. L'uomo voltò la testa verso la porta, poi gettò un'ultima occhiata verso di lei, e si diede alla fuga. Lei non era riuscita a vederlo in faccia, ma sapeva benissimo che sorrideva.
Pochi secondi dopo Jack uscì in maniche di camicia. Corse verso la Volvo, con le braccia alzate e la bocca aperta. Carol si allontanò dalla finestra proprio mentre lui alzava lo sguardo verso di lei.
CAPITOLO 5
Era la prima volta che Thorne interrogava qualcuno insieme a Carol Chamberlain, e anche se non si trattava di una cosa ufficiale si sentiva strano, seduto accanto a lei, mentre aspettavano che Rooker fosse accompagnato in sala colloqui. Per qualche strano motivo, si sentiva come se lui e Carol fossero due genitori ansiosi in attesa di parlare con il proprio figlio.
La porta si aprì e una guardia carceraria fece entrare Rooker.
L'uomo aveva un'aria contrariata, ma appena vide Chamberlain sorrise.
«Ciao, bellezza» disse.
Thorne aprì la bocca per dire qualcosa, ma Chamberlain lo precedette.
«Un'altra espressione meno che formale,» disse, con un tono tagliente che Thorne non le aveva mai sentito usare «e ti strappo via quello che ti è rimasto tra le gambe. È chiaro, Gordon?»
Il sorriso di Rooker vacillò, ma non scomparve, mentre si sedeva dalla parte opposta del tavolo. L'agente si diresse verso la porta. «Fate un fischio quando avete finito.»
«Grazie» disse Thorne. «Credevo che ormai fossi andato in pensione, Bill.»
L'agente aprì la porta e si voltò a guardarlo. «Mi restano ancora un paio di anni» disse. Poi indicò Rooker. «Penso di aver passato qui dentro più tempo di questo stronzo. Oh, mi scusi, signora, non...»
«Non preoccuparti» disse Chamberlain. «Era la parola giusta.»
Rooker soffocò una risata. L'agente uscì e chiuse la porta.
«Sta diventando un'abitudine» disse Rooker. Tirò fuori tabacco e cartine da sotto la pettorina verde e aprì la scatola. «Due volte in una settimana, signor Thorne. Neppure i miei parenti vengono così spesso.» Prese un po' di tabacco, lo stese sopra una Rizla e rollò una sigaretta sottilissima. «No, direi proprio che non vengono così spesso.»
In realtà era passata poco più di una settimana dal suo incontro con Thorne. E sette giorni precisi dalla sera in cui Carol Chamberlain aveva visto dalla finestra l'uomo che rivendicava di aver commesso il crimine per cui Gordon Rooker era in galera.
Rooker accese la sigaretta, si tolse una briciola di tabacco dalla lingua e fissò Chamberlain. «Credevo che lei fosse in pensione» disse.
«Infatti.»
«In campagna, con tanti gatti e un bel giardino...»
«Cosa ne sai di dove vivo io?»
Rooker si rivolse a Thorne. «Se lei non è più in servizio, cosa ci fa qui?»
Per "qui" intendeva la Sala Visite Legali, che era normalmente riservata ai colloqui confidenziali: incontri con poliziotti o avvocati e altre faccende ufficiali. Thorne, invece, desiderava mantenere tutto in forma non ufficiale, per il momento. Non aveva voluto informare Brigstocke, e meno che mai Tughan. Il collegamento tra Rooker e Billy Ryan risaliva a vent'anni prima, ed era alquanto sottile. Inoltre aveva promesso a Carol che si sarebbe occupato della cosa nel suo tempo libero. Aveva scambiato due parole con le persone giuste, chiedendo la restituzione di vecchi favori, per assicurarsi che Chamberlain e Rooker potessero avere una conversazione privata.
«La cosa di cui abbiamo parlato la settimana scorsa ha avuto nuovi sviluppi» disse a Rooker.
Rooker fece una faccia seria. «È una vergogna.»
«Proprio così.»
«Comunque, come ho detto l'altra volta...»
«Dimentichiamo quello che hai detto l'altra volta e ripartiamo da zero, va bene?» disse Thorne. «Il responsabile deve essere qualche deficiente che è stato tuo amico qui dentro, o qualcuno che ti ha scritto delle lettere. Mi hai detto di aver ricevuto un sacco di lettere strane.»
«È vero.»
«Allora, Gordon? Qualche idea brillante?»
Rooker aspirò tre boccate rapidamente. Tenne dentro il fumo e poi lo esalò con un sospiro. «Devo avere una protezione di qualche tipo, se parlo.»
Thorne rise. «Cosa?»
«Si è sparsa la voce, dopo la sua visita dell'altra volta...»
Thorne scrollò le spalle. L'idea della privacy gli era venuta un po' in ritardo. «Non sei in prima pagina da un bel po' di tempo, Gordon» disse. «Parlare con un poliziotto non farà una grande differenza.»
«Questo è ciò che crede lei...»
Chamberlain parlò a voce più bassa di prima, ma il tono era se possibile ancora più duro. «Se hai qualcosa da dire, Rooker, faresti meglio a dirla.»
Un'altra boccata. «In cambio voglio la libertà vigilata. Stavolta bisogna fare a modo mio.»
«E perché dovremmo aiutarti?»
«Ho bisogno di una garanzia.»
«Ti accontenti di poco, eh?»
«Ne varrà la pena.»
«A meno che tu non sia in grado di rivelarci la vera identità di Jack lo Squartatore, e dove sono finiti lord Lucan e Shergar, non credo che l'accordo ci interessi.»
Rooker non sembrò trovare la battuta di suo gradimento.
«Siamo qui per parlare delle lettere che ho ricevuto io» intervenne Chamberlain. «Delle telefonate...»
Rooker fissò il posacenere.
«Quell'uomo è venuto a casa mia...»
«Voglio essere protetto» insisté Rooker. «Quando sarò libero, s'intende...»
«Di chi hai paura?» disse Chamberlain.
«Nuova identità, nuovo numero di previdenza sociale, tutto.»
«Billy Ryan» disse Thorne.
«Forse.»
«Pensi che Billy Ryan cercherà di ucciderti?»
«Non per il motivo che credete voi.»
«Perché dovrebbe interessarci questo accordo?»
«Io posso consegnarvi Billy Ryan su un piatto d'argento.»
Thorne sbatté le palpebre, sorpreso. Questo sì che era interessante. Evitò di guardare Chamberlain, per non dare a Rooker nessuna traccia, e disse, in tono casuale: «Hai intenzione di fregare Billy Ryan?».
Rooker annuì.
«In quel caso,» disse Chamberlain «sarai un bersaglio.»
«Per questo voglio essere protetto.»
Era la tipica logica da malavita, non troppo difficile da capire. «Vuoi far beccare Ryan prima che lui becchi te. È così?»
«Non fate finta che la cosa non vi interessi. Ryan è un pezzo di merda e voi lo sapete.»
«Tu invece sei uno stinco di santo, vero Gordon?»
«Si tratta di lui o di me. Allora?»
«Dopo quello che hai fatto a quella ragazza... Sarei incline a lasciarti nelle mani di Ryan.»
Rooker chinò la testa, e schiacciò la cicca nel posacenere fino a distruggerla completamente. Quando finalmente alzò gli occhi, lo sguardo sfrontato era sparito. Le rughe sembravano più profonde, dandogli l'aspetto di un vecchio spaventato.
«Non sono stato io a bruciare quella ragazza.»
Chamberlain strinse i pugni fino a sbiancare le nocche. «Non provare a prendermi per il culo, Gordon. Non ci provare.»
Rooker si passò la lingua sulle labbra e ripeté quello che aveva detto.
E Thorne gli credette. Semplicemente gli credette. L'unica cosa che non capiva era la riluttanza del vecchio.
All'improvviso tutto si complicava. Thorne ricordava il colloquio precedente, quando Rooker aveva sostenuto con arroganza la propria colpevolezza. Ora negava di aver bruciato una ragazzina di quattordici anni, e sembrava che per lui fosse la cosa più difficile del mondo.
Stava confessando la sua innocenza.
Dave Holland ed Andy Stone avevano imparato ad andare d'accordo, senza per questo diventare amici. Quando avevano iniziato a lavorare insieme, circa un anno prima, a Holland dava fastidio il fascino di Stone, lo considerava una specie di minaccia. Da allora le cose tra loro erano migliorate, anche se ogni tanto la disinvoltura con cui il suo compagno raccontava una barzelletta o portava un completo elegante gli facevano venire voglia di vomitare.
«Mi sento di merda» disse Stone.
Holland alzò gli occhi dal monitor e sorrise. «Ti sei ubriacato di nuovo?»
«Sto ancora sudando Carlsberg con Sea Breezes.»
Holland sollevò un sopracciglio. «Cocktail?»
«Ero con una donna di classe, ieri sera.»
Holland ormai era abbastanza maturo da ammettere che, da quando era nata la bambina, il suo risentimento si era trasformato in pura e semplice invidia.
«E comunque, penso di aver dormito più di te» disse Stone.
«Questo è certo.»
Holland ormai si era abituato alla stanchezza. A volte gli ciondolava la testa, e non si vergognava di andare a dormicchiare qualche minuto in bagno, seduto sulla tazza, dopo una notte difficile. Era più il lato mentale della cosa a creargli problemi. I suoi pensieri erano confusi, riluttanti a seguire qualunque direzione che non fosse quella della minima resistenza. C'era stato un tempo in cui Sophie lo accusava di essere un poliziotto tutto d'un pezzo, come suo padre. Ora quel periodo era passato. Anche lei si era resa conto che Dave Holland non aveva abbastanza energie mentali per essere qualcos'altro.
E la bambina gli provocava emozioni contrastanti: amore e terrore. Guardandola, a volte, si sentiva allargare il cuore e stringere il culo allo stesso tempo.
Holland chiuse gli occhi per qualche secondo, ricordando il primo caso a cui aveva lavorato con Tom Thorne.
Si rivide in macchina con lui, e in ufficio dopo un grande passo avanti verso la soluzione del caso. Era solo l'eccitazione che non riusciva più a ricordare, e neppure a immaginare.
«Dov'è quel pagliaccio dell'SO7?» chiese Stone. «Non c'è mai quando ne hai bisogno.»
Stavano esaminando i dati relativi all'omicidio di Muslum Izzigil, da cui era emersa una serie di attività illecite del video shop. Un paio di membri della squadra di Brigstocke erano rimasti sorpresi che la pirateria video fosse ancora un grosso affare, e Tughan non aveva perso l'occasione per fare loro una lezioncina: «Cinquemila copie da un solo master rubato, vendute a due sterline l'una. Circa mezzo milione di sterline all'anno per film. Non rende certo come l'eroina, ma è anche molto meno rischioso, e nel caso che ti becchino la pena è minima».
Alcuni, tra cui Thorne, erano restati scettici. Ma Thorne non faceva testo, perché era scettico su qualunque cosa uscisse dalla bocca di Tughan, e comunque le prove di una grossa operazione di pirateria c'erano. Mancavano invece indizi su chi fosse la persona, o la banda, dietro Muslum Izzigil. Chi aveva reagito in modo così aggressivo quando Billy Ryan aveva cercato di invadere il suo territorio?
Chi pagava l'X-Man?
C'era un agente dell'SO7 che in teoria doveva collaborare con Holland e Stone. Ma non appena c'era da stancarsi gli occhi smistando carte, si materializzavano improvvise riunioni a Barkingside, o misteriose fonti da contattare dalla parte opposta di Londra.
«Stanno facendo i furbi, eh?»
Holland stava per fare un commento, quando qualcosa sullo schermo attirò la sua attenzione. Controllò qualche pagina indietro, poi sollevò una mano. «Andy, vieni a dare un'occhiata.»
«A cosa?»
«A un nome.» Evidenziò due parole sullo schermo, poi cambiò pagina e trovò le stesse due parole. «Solo un nome» disse. «Niente di eccitante. Per il momento.»
«Difficilmente riuscirai a collegare quel nome a qualcosa. Sono troppo furbi per questo.»
«Forse...»
«No, senza forse. Non li prenderemo con Windows 2000, puoi starne certo.»
Holland emise un grugnito. «Chiunque siano, il loro nome continua a venire fuori...»
«Ero un uomo morto» disse Rooker.
Chamberlain non reagì, Thorne si chinò in avanti. «Non diventare troppo esistenziale, Gordon. Stai sul semplice. E soprattutto sii sincero. Va bene?»
«Ero fottuto. Fregato. Così va meglio? Chiunque fosse l'uomo che aveva bruciato quella ragazza aveva sistemato ogni cosa per incastrare me. Io ero già noto alla legge per essere un incendiario...»
«Chiunque fosse... Vuoi dirmi che non sai chi è?»
«So chi l'ha pagato. So di chi è stata l'idea...»
«Questo lo sappiamo già. Sappiamo che è stata un'altra famiglia...»
«Non sapete un cazzo.»
Accanto a lui, Chamberlain era immobile, ma Thorne sentiva la tensione che irradiava da lei. Fece la domanda scandendo le parole. «Di chi si tratta, allora?»
Quello era il grande momento di Rooker. «Di Billy Ryan. Per questo posso consegnarlo nelle vostre mani. È stato lui a commissionare l'omicidio della figlia di Kevin Kelly.»
Una pausa, non troppo drammatica. Poi Thorne fece la domanda fatidica: «Perché?».
«Niente di complicato. Billy era ambizioso, e voleva assorbire le "aziende" più piccole, ma Kelly non voleva saperne. Preferiva lasciare le cose come stavano. E Billy pensava che il suo capo avesse perso lo smalto.»
«Quindi ha cercato di fargli le scarpe?»
«Billy voleva quello che aveva Kevin, e molto di più. Aveva già cercato di toglierlo di mezzo, ma gli era andata male.»
Thorne ricordò la lezione di storia della malavita di Chamberlain: l'attentato fallito a Kevin Kelly pochi mesi prima dell'incidente in quella scuola. «C'entravi tu anche in quella storia, Gordon?»
«Lasciamo perdere. Il punto è che la famiglia di Kelly pensava che io fossi coinvolto.»
«Quindi, Billy vuol fare uccidere la figlia del suo capo, ma l'assassino sbaglia ragazza.»
«Esattamente. Un altro tentativo fallito, ma funzionò ugualmente. Kevin Kelly s'incazza sul serio, fa ammazzare tutti quelli che pensa possano essere implicati nell'attentato, poi consegna l'intera attività nelle mani di Billy e va in pensione. Un completo successo.»
Rooker ebbe un soprassalto quando Chamberlain disse: «Non credo che la famiglia di Jessica Clarke la vedrebbe in questo modo».
«E come mai tu sai tante cose?» chiese Thorne.
«Perché Billy Ryan si era rivolto a me, inizialmente. Ero la persona giusta a cui chiedere. Avevo già fatto lavoretti del genere...»
«Stai dicendo che Billy Ryan ti ha offerto del denaro per uccidere la figlia di Kevin Kelly?»
«Molto denaro.»
«E tu hai rifiutato.»
«Sì. Merda, io non uccido bambini.»
Chamberlain gemette. «Adesso è arrivato il momento delle stronzate da "nobile gangster". "Facciamo del male solo a quelli come noi. Chi tocca i bambini sarà punito." Tra un attimo comincerà a parlarci di quanto ama sua madre...»
Rooker rise e le strizzò l'occhio.
La stanza non era calda, e fino a quel momento Thorne aveva tenuto addosso la sua giacca di pelle. Ora se la tolse, poggiandola sullo schienale della sedia. Guardò Chamberlain. L'elegante tailleur che indossava sembrava nuovo, e probabilmente lei era passata anche dal parrucchiere, prima di venire lì. Ma non disse nulla.
«Spero che questa non sia una domanda troppo ovvia» disse Thorne, rivolto a Rooker. «Ma perché hai confessato?»
«Billy Ryan fece in modo di incastrarmi per bene. L'accendino che fu ritrovato accanto al recinto era stato lasciato lì apposta.» Guardò Chamberlain. «Lei ha visto cosa ha fatto Kevin Kelly alle persone che pensava fossero responsabili del fatto. Immagini cosa avrebbe fatto a me. Kelly voleva uccidermi per quello che avrei potuto fare alla sua Alison, e Billy voleva farmi sparire perché sapevo troppo.» Si voltò verso Thorne. «Ero un uomo segnato.»
«Quindi la prigione ti è sembrata un'opzione preferibile?»
Rooker aprì la sua tabacchiera di latta, e confezionò la sigaretta senza abbassare gli occhi. «Ho pensato di fuggire, prima. In Spagna, o ancora più lontano. Ma l'idea di passare anni a guardarmi le spalle, facendomela addosso ogni volta che sentivo suonare il campanello...»
Chamberlain scosse la testa. «Non la bevo. Saresti stato un uomo segnato anche in prigione.»
Rooker posò la sigaretta ancora rollata a metà. «E crede che non lo sapessi?» Sollevò la pettorina e la felpa a mostrare i capezzoli pelosi, e la lunga cicatrice che gli attraversava le costole. «Ero un uomo segnato dal momento in cui misi piede a Gartree, poi a Belmarsh, e poi qui.»
«Allora perché non tentare la sorte fuori?»
«Qui si gioca secondo regole che conosco. E non ho paura. Fuori, potrebbe essere chiunque. Quello che ti chiede che ora è. L'uomo che piscia accanto a te in un cesso pubblico. Assolutamente chiunque. Qui invece so chi devo tenere d'occhio. So quando ci proverà, e posso proteggermi. Ho avuto qualche momento difficile, ma sono ancora vivo. Per quello continuo a pensare che sia stata la cosa giusta da fare.»
Thorne osservò la lingua giallastra di Rooker leccare la cartina. Aspettò che si infilasse la sigaretta tra le labbra e l'avesse accesa. Poi disse: «La cosa giusta da fare è stata non tradire mai Billy Ryan, in questi anni».
«Non sono così idiota.»
Chamberlain tamburellò le dita sul tavolo. «Eccoci di nuovo al capitolo "onore tra ladri".»
«Allora perché vuoi farlo adesso?» chiese Thorne.
«Ascoltate, siete stati voi a venire da me. Io ho cominciato a pensarci sopra, e gli altri hanno cominciato a mormorare.»
«Perché adesso, Rooker?»
Rooker si tolse la sigaretta dalle labbra, tenendola tra le dita macchiate di nicotina. «Ne ho abbastanza. Sono vivo e respiro, ma l'aria qui puzza di merda e sudore. Devo discutere con violentatori e pedofili su chi ha il diritto di cambiare canale o di farsi una partita a bigliardo. Mio nipote firmerà un contratto con il West Ham tra qualche settimana. Mi piacerebbe poter andare a vederlo giocare.» Aspirò una boccata, scosse la cenere. «È arrivata l'ora di uscire.»
Chamberlain si alzò in piedi e si diresse verso la porta. «Molto commovente. Proprio il tipo di cose che il comitato per il rilascio discrezionale vuole sentire.»
«Ma non è abbastanza. Per questo ho bisogno di un po' d'aiuto...»
«Non ho ancora capito perché hai confessato il tentato omicidio di Jessica Clarke. Avresti potuto farti rinchiudere per un sacco di altri reati. Quell'uomo che avevi legato a una sedia dando fuoco ai suoi capelli, per esempio. Perché rivendicare proprio quel fatto?»
Thorne aveva la risposta. «Perché così l'avrebbero messo nella sezione per Prigionieri Vulnerabili. Dove sarebbe stato più difficile avvicinarlo, per quelli che volevano ucciderlo. Vero, Gordon?»
Rooker non rispose.
Bussarono alla porta, e l'agente di custodia si affacciò per chiedere se volevano un tè. Chamberlain declinò l'offerta, Thorne e Rooker accettarono. L'agente fece una faccia dura alla richiesta di Rooker, ma Thorne gli fece segno di assecondare il prigioniero, e l'uomo si ritirò.
«Allora chi è stato?» disse Chamberlain.
Evidentemente pensava alle lettere, alle telefonate, all'uomo che la fissava accanto alla Volvo in fiamme.
«Se non sei stato tu a prendere i soldi di Billy Ryan, devi avere almeno un'idea di chi abbia accettato al tuo posto.»
Rooker scosse la testa. «Senta, io non ho la minima idea di chi sia il matto che la sta molestando...»
«Chi ha dato fuoco a Jessica Clarke?» chiese Chamberlain.
«Davvero non ne ho idea. Non conosco nessuno capace di fare una cosa del genere. In questi anni ci ho pensato molto, e ho cominciato a chiedermi se Billy Ryan non l'abbia fatto di persona...»
Restarono in macchina a motore spento per un minuto buono, senza parlare. Quando Thorne si chinò per girare la chiave Chamberlain disse: «Che cosa ne pensi?».
Thorne lasciò andare un sospiro. «Da dove vuoi cominciare?»
«Per esempio dal fatto che Rooker si sia fatto rinchiudere per un delitto che non aveva commesso.»
«Ho già sentito storie simili» disse Thorne. «E suppongo che se l'uomo che ti sta alle costole è un pazzo sanguinario come Billy Ryan...»
«Tu affronteresti vent'anni di galera, per evitarlo?»
«Non credo. Tuttavia Rooker contava su una condanna più lieve...»
Chamberlain fissò il parcheggio, fuori dal parabrezza, senza dire nulla.
«Non sei convinta?» chiese Thorne.
Lei parlò a bassa voce, senza guardarlo. «Non ho la più pallida idea di cosa pensare. Tra un po' mi daranno l'abbonamento gratuito per l'autobus, eppure non sono più brava a capire cosa passa per la mente delle persone di quando ho indossato una divisa per la prima volta.»
Thorne accese il motore e ingranò la marcia. Mentre uscivano dal parcheggio, ripensò alle ultime parole del colloquio con Rooker. «Un momento» aveva detto. «Ma Billy Ryan non ha sposato Alison Kelly, pochi anni dopo?» Chamberlain aveva annuito. «Cerca di ucciderla, e poi la sposa?»
«È stato un tocco davvero geniale» aveva detto Rooker. «L'erede designato che sposa la figlia del vecchio re. È stato come cementare un'alleanza.» Rooker aveva riso, vedendo l'espressione incredula sui loro volti, poi aveva detto a Carol: «Glielo dica lei, com'è Billy Ryan. Lo conosce bene. Billy è freddo...».
CAPITOLO 6
Lunedì mattina, verso le dieci e mezza, Tughan si affacciò nella sala di pronto intervento, scrutò rapidamente i presenti e si ritirò. Aveva il viso rosso come un sedere sculacciato.
Holland controllò l'orologio.
Samir Karim spostò il suo voluminoso posteriore dal bordo della scrivania, e si chinò verso di lui. «Qualcuno è nei guai» disse.
Holland annuì. Sapeva di chi si trattava. Lì accanto, Yvonne Kitson era immersa nella lettura di un grosso volume rilegato. «Cosa legge, ispettore?» chiese Karim.
Kitson alzò gli occhi dalla pagina e mostrò il libro. Era l'ultima edizione del Manuale per le indagini sugli omicidi. Un grosso volume di strategie, modelli e protocolli, prodotto dalla facoltà di criminologia. In teoria ogni funzionario investigativo doveva conoscerlo a menadito. Quando si parlava di "indagini da manuale", si intendeva quel manuale.
«Ha problemi di insonnia?» chiese Holland.
Kitson sorrise. «Non è un libro che consiglierei per le vacanze, ma è utile tenersi al corrente degli ultimi sistemi, Dave.»
«Il problema, con i sistemi per risolvere i casi di omicidio, è che funzionano soltanto se anche gli assassini seguono un sistema.»
«Sai a chi somigli quando parli così, vero?» disse Kitson.
Holland lo sapeva benissimo, e pensò che probabilmente c'era ancora speranza per lui, dopotutto. Lo colpì il fatto che molti avevano preso l'abitudine di parlare di Tom Thorne senza pronunciare il suo nome.
Come evocato dai suoi pensieri, Thorne entrò nella sala, con un'aria irritata come quella di Tughan, il quale apparve subito dietro di lui.
«Ha tenuto qui in attesa un sacco di gente, ispettore Thorne» disse Tughan.
Thorne si rivolse a tutta la sala, senza neppure voltarsi verso Tughan. «Scusate, la mia macchina non partiva...» Notò un accenno di sorriso sul volto di Holland. «Non cominciare, Dave, non sono dell'umore giusto.»
«Bene, abbiamo già perso abbastanza tempo» disse Tughan. «Briefing nel mio ufficio, tra cinque minuti.»
Mentre Tughan parlava, Thorne lasciò vagare la mente. Stava ascoltando tutto, ma pensava anche ad altre cose.
Per esempio a Yvonne Kitson. Aveva notato il manuale che stava leggendo. Era tipico del suo carattere, essere sempre informata. Thorne l'aveva sempre ammirata per la sua capacità di riuscire a dividersi equamente tra lavoro e famiglia. Ma l'anno prima suo marito aveva scoperto che Yvonne aveva un amante, e se ne era andato di casa con i loro tre figli. I bambini ora erano tornati a stare con lei, ma Yvonne era una persona diversa. Prima, era una donna che stava facendo carriera senza sforzo. Adesso cercava solo di tirare avanti. Thorne glielo leggeva in faccia. Sembrava attentissima alle parole di Tughan, ma Thorne avrebbe scommesso che anche lei stava pensando ad altro...
Poi cominciò a pensare al padre. Doveva parlare con lui, controllare come andavano le cose. Forse la cosa più semplice era chiamare Eileen..
Infine, cercò di capire come mai non aveva ancora parlato a Tughan delle rivelazioni di Gordon Rooker, malgrado fossero passati già quasi tre giorni dal loro colloquio nel carcere di Park Royal.
Per tutto il fine settimana Hendricks aveva sollevato l'argomento, guardandolo come se fosse un idiota e facendogli la predica, mentre seguiva allo stesso tempo uno sceneggiato alla tivù.
«Vuoi prendere Billy Ryan da solo, non è vero?» aveva detto. «Vuoi catturare la persona che ha dato fuoco a quella ragazza.»
«Non voglio prenderlo da solo.»
«Allora perché non hai detto a nessuno di Rooker?»
Thorne disse che era a causa del rapporto che aveva con Chamberlain, e sì, un po' anche di quello che aveva con Tughan. Era quasi riuscito a convincersi che le informazioni di Rooker, la sua offerta, fossero relative a un caso di venti anni prima, e quindi non strettamente rilevanti nell'indagine sugli omicidi di Mickey Clayton, dei coniugi Izzigil e degli altri. Certo, gli sarebbe proprio piaciuto poter inchiodare Billy Ryan da solo, ma non aveva la minima idea di come fare.
Tughan stava parlando di Dave Holland ed Andy Stone, lodandoli per il lavoro che aveva fatto saltare fuori quel nome importante. Thorne notò che Holland era incazzatissimo per dover dividere il merito con Andy Stone.
«I ragazzi del National Criminal Intelligence Service hanno lavorato su questo durante le ultime quarantotto ore,» disse Tughan «e ora abbiamo un discreto background sulla famiglia Zarif.»
Tughan era appoggiato alla scrivania, e Brigstocke era in piedi accanto a lui, con le braccia incrociate sul petto. Davanti a loro c'erano una dozzina di persone, stipate nel piccolo ufficio: i membri della squadra tre dell'Unità per i Reati Gravi (Ovest), e i loro omologhi dell'SO7.
«Gli Zarif sembrano dei cittadini modello» continuò Tughan. «Possiedono, da soli o in società con altri, una piccola compagnia di taxi, una catena di video shop, trasporti, autonoleggi... Tutto perfettamente legale. Mai neppure una multa per divieto di sosta.»
«Partiamo con la spiegazione?» chiese Brigstocke.
Tughan fece un cenno a uno dei suoi agenti, un gallese squadrato e barbuto di nome Richards. Thorne aveva passato una serata con lui in un pub, qualche tempo prima, e lo trovava un conversatore niente affatto avvincente.
«Immaginate che si tratti di tre cerchi concentrici» disse Richards.
Fregandosene che qualcuno potesse vederlo, Thorne chiuse gli occhi. Aveva già ascoltato la lezioncina sui tre cerchi al pub. Richards lo aveva bloccato in un angolo accanto alla slot-machine, e gli aveva spiegato in un quarto d'ora quello che avrebbe facilmente potuto illustrare in due minuti: il modo in cui operava una gang. C'erano le bande da strada: rapinatori, ladri d'auto, quelli che minacciavano i ragazzini con la pistola per fregar loro un telefonino ultimo modello o un lettore Mp3. Poi venivano i delinquenti che controllavano le operazioni illegali: strozzinaggio, gioco d'azzardo, traffico d'armi, falsificazione di carte di credito. Infine venivano i nababbi: uomini d'affari apparentemente ineccepibili, che gestivano il traffico di droga ad alti livelli e il riciclaggio di denaro sporco, e che si comportavano come rispettabili capitani d'industria.
«Immaginate che si tratti di tre cerchi concentrici,» aveva detto Richards, con in mano la sua mezza pinta di birra «che si mescolano l'uno con l'altro. Ma il punto preciso in cui si toccano è impossibile da determinare.» Poi si era chinato verso di lui, sorridendo: «Mi piace immaginarli come i circoli di un bersaglio...».
Thorne aveva annuito, come se quella fosse un'idea grandiosa. Lui preferiva immaginare i cerchi come quelli che si allargano in una fogna quando una merda cade dal tubo di un bagno.
Fu strappato alle sue elucubrazioni dalla voce di Richards che parlava di "fanteria". Thorne si sfregò gli occhi, e disse a bassa voce a Sam Karim: «Cristo, crede di essere in un episodio dei Soprano...».
«Il video shop degli Izzigil è un buon esempio di come funziona il sistema» disse Richards. «Il nome Zarif appare sull'atto di proprietà del locale, e sui registri della camera di commercio. Inoltre i veicoli usati per distribuire le videocassette legali sono stati presi in leasing da una delle loro compagnie. Ma non c'è nulla che possa legare il loro nome a qualunque attività illegale svolta in quel video shop.»
Tughan si schiarì la voce e subentrò a Richards: «Ci sono tre fratelli. Appena avremo delle fotografie le distribuiremo». Gettò un'occhiata ai suoi appunti. «E anche una sorella, e certamente una quantità di cugini e parenti acquisiti. Sono di etnia curda, arrivati qui un paio d'anni fa. Finora hanno tenuto un profilo basso, mentre si conquistavano una zona operativa nell'area più logica per loro: tra Manor House e Turnpike Lane.»
«La piccola Istanbul...» disse una voce dal fondo.
Tughan sorrise per mezzo secondo. «Ora che si sono sistemati, sembra che vogliano espandersi. E sembra che il povero Billy Ryan sia la loro prima vittima.»
«Vediamo di metterli un po' sotto pressione» disse Brigstocke. «Così capiremo quanto è solida la loro organizzazione.»
Tughan si drizzò in piedi, lisciandosi le pieghe del vestito, e posò gli appunti sulla scrivania. «Benissimo. Sergente Karim, agente Richards, assegniamo un po' di compiti...»
Mentre lasciavano l'ufficio, Thorne restò stupefatto vedendo Tughan che gli si avvicinava e gli parlava come se non si odiassero a morte. «Ti va di venire a trovare Billy Ryan?»
«E gli Zarif?»
«Daremo loro ancora un paio di giorni. Dobbiamo documentarci meglio.»
«Capisco.»
«Al momento, Ryan perde quattro a due. Andiamo a vedere come se la sta cavando.»
Thorne fece un cenno di assenso, ammutolito dalla sorpresa. Perde quattro a due. Non era chissà cosa, ma qualunque tentativo di fare una battuta da parte di Nick Tughan era materiale da X-Files.
Durante il viaggio verso Camden Town nella Rover di Tughan, praticamente non si parlarono. Per fortuna la musica era troppo alta per conversare. Seguirono più o meno la stessa strada che Thorne faceva per tornare a casa. Hampstead e Belsize Park, attraverso una delle zone più care della città. Superarono il Jack Straw's Casde, il pub di Hampstead Heath che traeva il nome da uno dei leader della rivolta contadina, e che in passato era stato uno dei posti preferiti di Dickens e Thackeray. Ora la zona era frequentata da gay che amavano il sesso casuale e pericoloso.
Parcheggiarono davanti a una sala da bigliardo dietro la stazione di Camden Road, a pochi isolati dall'ufficio di Billy Ryan. Thorne fu felice di scendere dall'automobile di Tughan. Benché anche a lui capitasse spesso di irritare qualcuno con i propri gusti musicali, non avrebbe imposto Phil Collins neppure al suo peggior nemico. Mentre si dirigevano a piedi verso l'ufficio di Ryan, Thorne non poté evitare di chiedersi se i membri delle gang usavano anche album di Phil Collins come strumenti di tortura, da affiancare alla perforazione delle rotule e all'estrazione dei denti senza anestesia.
L'ufficio del direttore della Ryan Properties somigliava molto a quello di ogni altro manager di successo, salvo forse in un particolare: alla reception c'era un uomo con un tatuaggio sul collo, il quale li fece attendere qualche minuto, poi disse loro di passare nell'ufficio del capo.
Billy Ryan si alzò in piedi e tese la mano. Tughan la strinse, Thorne no, e Ryan sembrò trovare divertente la cosa.
Thorne riconobbe dalle foto gli altri due uomini presenti. Uno era Marcus Moloney, uno degli uomini più fidati di Ryan, che aveva fatto una rapida carriera nella banda. L'altro era Stephen, il figlio di Billy.
«Prego, accomodatevi» disse Ryan.
Tughan e Thorne si sedettero su un divanetto, gli altri tre su delle poltrone. Mentre Ryan offriva da bere e loro rifiutavano, Thorne osservò il locale. Si trovavano sopra il negozio di mobili da ufficio dal quale Ryan gestiva il suo impero da molti milioni di sterline. La stanza era spaziosa, ma i mobili erano bruttini e rovinati, cosa che a Thorne sembrò curiosa, visto che al piano di sotto avrebbero potuto prenderne dei nuovi in qualunque momento.
Nei venticinque anni trascorsi in polizia, Thorne aveva incontrato il nome di William John Ryan con deprimente frequenza. Ma, pur abitando a meno di due chilometri dal quartier generale di Ryan, fino a quel momento non aveva mai avuto direttamente a che fare con lui, e quella era la prima volta che lo vedeva di persona. E doveva ammettere, a denti stretti, che l'uomo sapeva presentarsi bene.
Era robusto, ma con la bocca piccola e mobile. Non mostrava mai i denti quando parlava, e le guance rosse erano impeccabilmente rasate. Odorava di dopobarba di marca e di qualcos'altro, forse lacca per capelli, a giudicare da come i capelli color sabbia, in alcuni punti già quasi bianchi, si arricciavano intorno al collo della giacca.
Thorne pensò che ricordava una versione ben conservata di Van Morrison.
«Suppongo che non abbiate ancora fatto molti progressi nella caccia a quell'assassino» disse Ryan.
L'accento dublinese era sbiadito, dopo tanti anni a Londra, ma ancora presente. Per reazione, anche Tughan rispolverò il suo accento irlandese, e Thorne non riuscì a capire se fosse una mossa calcolata oppure no.
«Stiamo seguendo diverse piste promettenti» disse Tughan.
«Meno male. Bisogna proprio che lo prendiate al più presto.»
«Lo prenderemo...»
«Quell'uomo ha ammazzato alcuni miei amici. E finché non sarà assicurato alla giustizia, devo supporre che la mia stessa famiglia sia in pericolo.»
«Direi che si tratta di una supposizione giusta.»
«Allora fate qualche cosa, no?» intervenne Moloney. Aveva una voce bassa e moderata. Il viso, sotto i capelli radi, era pallido e paffuto. «Trovo incredibile che non offriate un po' di protezione alla famiglia del signor Ryan.»
Ryan notò l'espressione di Thorne..«C'è qualcosa di divertente, in quello che ha detto il mio amico?»
Thorne scrollò le spalle. «Non proprio. Solo che è ironico sentir parlare di protezione qui, visto che di solito siete voi a offrirla... anche se "offrire" non è il verbo giusto...»
«Brutto stronzo bastardo!» gridò Stephen Ryan. Molti pensavano che il figlio fosse ormai il braccio destro del padre. Gli somigliava, ma poiché fin da piccolo era stato mandato nelle migliori scuole di Londra, aveva acquistato un tono e un accento poco in carattere con il personaggio.
Thorne sorrise a Billy. «Mi fa molto piacere vedere che i soldi per l'educazione di suo figlio sono stati ben spesi.»
Ryan gli restituì un'imitazione di sorriso, poi si rivolse a Tughan. «E questo dove l'ha pescato?»
Tughan gettò una rapida occhiata a Thorne, come se si stesse chiedendo anche lui la stessa cosa. «Meglio non perdere tempo in chiacchiere, signor Ryan» disse. «Siamo venuti a chiederle se ha saputo qualcosa di nuovo, dopo il nostro ultimo colloquio.»
«Qualcosa di nuovo?»
«Idee, teorie su chi possa essere interessato... a mettere in pericolo i suoi affari.»
«Gliel'ho già detto l'altra volta, e anche le volte precedenti...»
«Pensavo che potesse aver sentito qualche altro particolare.»
Ryan allargò le braccia sulla poltrona. Aveva spalle poderose sotto la giacca, ma Thorne, abbassando lo sguardo, restò stupito dalla delicatezza dei piedi. E ricordò che da giovane Ryan aveva una certa reputazione come ballerino, oltre che come pugile dilettante. Fissò i mocassini lucidi, e i calzini di seta quasi da ragazza.
«Non so di chi si tratta» disse Ryan. «E vi assicuro che vorrei saperlo.»
Thorne dovette ammettere che mentiva bene. Riusciva anche a stendere un velo quasi di tristezza sul viso, mascherando la rabbia e il desiderio di vendetta. Moloney e Stephen erano entrambi a testa china.
«No, non ho nessuna idea di chi possa essere» ripeté Ryan. «È quello che dovete scoprire voi.»
Tughan tirò leggermente la stoffa dei pantaloni, e accavallò le gambe. «Magari qualcuno ha ricordato qualcosa. Qualche impiegato, per esempio...»
Stavolta fu il termine "impiegato" a far sorridere Thorne. Se Ryan se ne accorse, non lo diede a vedere. Scosse la testa e restarono tutti in silenzio per alcuni lunghi secondi.
«Quali sono le piste di cui parlavate?» chiese Stephen Ryan, fissando Thorne come se fosse una macchia di merda su un vestito bianco.
«Oh, grazie» disse Thorne. «L'avevamo quasi dimenticato. Il nome Izzigil vi dice qualcosa?»
Tutti scossero la testa.
«Sicuri?»
«Si tratta di un interrogatorio?» disse Moloney. «Signor Ryan, forse dovremmo far venire l'avvocato.»
Ryan sollevò una mano. «Mi aveva detto che si trattava di una chiacchierata informale, signor Tughan.»
«Infatti.»
Thorne annuì a sua volta. «Allora è proprio un "no", su Izzigil?» Fece un cenno a Tughan, il quale estrasse un paio di fotografie dalla borsa e le posò sul tavolino già ingombro di giornali e di riviste. «E questi due li conoscete?»
Stephen Ryan e Marcus Moloney si chinarono in avanti e lasciarono andare un sospiro simultaneo. Billy Ryan prese una foto, ricavata dal video a circuito chiuso del negozio di Izzigil. Si trattava di due ragazzi che correvano, presumibilmente dopo aver gettato il bidone della spazzatura contro la vetrina del negozio.
«Sembrano un paio di delinquenti da strada» disse Ryan. «Di quelli da dieci centesimi la dozzina. Marcus?»
Moloney scosse la testa.
Stephen Ryan fissò Thorne come se avesse riconosciuto i due giovani. «Non sono la Cicala e la Formica?» disse, e rise.
Tughan riprese le foto, alzandosi in piedi. «Bene, allora togliamo il disturbo...»
Moloney e Stephen restarono seduti. Billy Ryan accompagnò alla porta i due poliziotti. Uscendo, Thorne strizzò l'occhio all'uomo tatuato dietro la scrivania della reception.
«Ma cosa crede di fare, questa testa di cazzo, con i suoi tagli?» sbottò Ryan. «Sono in affari da molti anni, e ho visto parecchie cose scioccanti...»
«Non ne dubito» lo interruppe Thorne.
Ryan non rilevò il sarcasmo, e si limitò a scuotere la testa, con aria disgustata. «Stronzo di un X-Man.»
Thorne non era sorpreso dal fatto che Ryan sapesse quello che l'assassino faceva alle sue vittime. Dopotutto tre di loro erano stati trovati dai suoi uomini. Il soprannome, invece, era rimasto strettamente confinato all'interno di Becke House. Evidentemente Ryan era un uomo pieno di contatti, e Thorne non era così ingenuo da supporre che qualche poliziotto non si fosse lasciato tentare dalla possibilità di arrotondare lo stipendio.
Appena prima di uscire, sparò la domanda come se gli fosse venuta in mente all'improvviso. «Il nome Gordon Rooker le fa venire in mente qualcosa, signor Ryan?»
Ci fu una reazione. Fuggevole e indefinibile, ma una reazione. Rabbia, shock, stupore?
«Un'altra testa di cazzo» disse Ryan. «Uno a cui non pensavo da parecchio tempo.»
I tre restarono un attimo in silenzio. L'odore del dopobarba era insopportabile, da così vicino. Poi Ryan si voltò e tornò rapidamente verso il suo ufficio.
Quando arrivarono all'auto era già buio. A Thorne dispiacque dover constatare che la Rover non aveva neppure un finestrino rotto.
«Chi è Gordon Rooker?» chiese Tughan.
«Solo un nome che mi è venuto in mente. Una pista sbagliata.»
Tughan gli rivolse una lunga occhiata. Premette il bottone sul telecomando per sbloccare le portiere, e aprì quella dalla sua parte. «Sono quasi le cinque. Ti accompagno a casa.»
Thorne fissò la scatola delle audiocassette attraverso il finestrino. L'idea di un multimiliardario pelato che belava canzoni sui senzatetto gli riuscì insopportabile.
«Grazie, preferisco fare una passeggiata» disse.
CAPITOLO 7
Thorne tagliò per Royal College Street, dove una targa sbiadita identificava la casa in cui avevano abitato Verlaine e Rimbaud. Quando finalmente arrivò a Kentish Town piovigginava, ma la pioggia era comunque preferibile a un passaggio nell'auto di Tughan.
I pensieri di Thorne giravano ancora intorno a Billy Ryan. Si chiedeva quanti dei pub, delle saune e degli Internet café che aveva incontrato lungo la strada fossero connessi a Ryan, in un modo o nell'altro.
Pensò a quelli che lo ammiravano. Quelli che vivevano all'esterno della banda, e che speravano un giorno di poter arrivare all'interno. Quei ragazzi che non vedevano l'ora di cambiare le Timberland e i vestiti di Tommy Hilfiger per un completo Armani, immaginavano cosa avrebbero dovuto fare in cambio? Sapevano di cosa poteva essere capace quel gangster dai piedi di ballerino?
Ho visto parecchie cose scioccanti...
Appena prima di svoltare in Prince of Wales Road, Thorne entrò in un minimarket, per comprare vino e latte, e un giornale per vedere qual era la partita di lunedì su Sky Sport. Mentre faceva la fila alla cassa, udì qualcuno che alzava la voce vicino all'ingresso, e si avvicinò. Una guardia giurata in uniforme stava accompagnando fuori una donna sulla quarantina. Il suo modo di fare era deciso, ma la sua voce non era priva di calore: «Quante volte devo dirtelo, tesoro?».
«Scusami, lo sai che non riesco a evitarlo» disse la donna.
La guardia vide avvicinarsi Thorne e disse: «Ecco che arriva la persona giusta».